Digital Divide Culturale e nuovi Analfabetismi Funzionali sono un’ostacolo per l’Innovazione

Agli inizi del 2019 il governo giapponese introduce il concetto di Società 5.0 all’interno del 5° Programma base “Scienza e Tecnologia per una Società Futura”. Non si tratta di uno slogan, ma di una visione: costruire una società centrata sull’uomo, capace di bilanciare progresso economico e benessere collettivo, integrando senza soluzione di continuità il cyberspazio con lo spazio fisico.
Il Giappone, paese di anziani come l’Italia, da tempo tra i paesi leader nello sviluppo tecnologico applicato al sociale, ha colto un punto essenziale: l’innovazione non è soltanto questione di macchine, ma di cultura. Parlare di Società 5.0 significa riconoscere che l’adozione di tecnologie avanzate deve andare di pari passo con la capacità delle persone di comprenderle, usarle e trasformarle in valore sociale.
Ed è proprio qui che il confronto con l’Italia diventa inevitabile: mentre il Giappone propone una cornice culturale inclusiva e proattiva, il nostro Paese continua a scontare ritardi profondi sul fronte delle competenze digitali e della formazione, con un digital divide che non è soltanto infrastrutturale, ma soprattutto cognitivo.


Il cuore della Società 5.0 è una società “smart”, più intelligente, dove tecnologie come l’Information Technology e l’Intelligenza Artificiale non sono semplicemente strumenti, ma forze che ridisegnano il rapporto tra uomo e macchina. Ogni trasformazione digitale porta infatti con sé nuove configurazioni e nuove sfide: non solo tecniche, ma cognitive e metodologiche.

Consapevole di queste implicazioni, il governo giapponese ha individuato cinque grandi ostacoli da rimuovere per liberare il potenziale dell’innovazione:

  • impedimenti amministrativi
    legati alla burocrazia e ai processi lenti;
  • impedimenti legali
    dovuti a normative non aggiornate;
  • impedimenti di conoscenza
    che riguardano la carenza di competenze digitali e la difficoltà nel generare nuovo sapere;
  • impedimenti di forza lavoro
    legati alla mancanza di profili qualificati;
  • impedimenti di accettazione sociale
    cioè la resistenza culturale delle persone al cambiamento.

Il 5° Programma di Base per la Scienza e la Tecnologia (Giappone, 2016)

Il 5° Programma di Base per la Scienza e la Tecnologia, noto anche come “Scienza e Tecnologia per una Società Futura”, è stato lanciato dal governo giapponese nel 2016 come piano di ricerca e sviluppo di lungo periodo.
Obiettivi principali

  • Promuovere l’avanzamento della scienza e della tecnologia.
  • Contribuire alla costruzione di una società sostenibile e resiliente di fronte alle sfide future.
  • Rafforzare la cooperazione internazionale e la collaborazione con altri paesi.

Aree di focus

  • Scienze della vita.
  • Robotica e intelligenza artificiale.
  • Energia e tecnologie ambientali.
  • Scienza e tecnologia dei materiali.

Al centro del programma si colloca il concetto di Società 5.0: un modello di società che mira a integrare senza soluzione di continuità il cyberspazio e lo spazio fisico, bilanciando crescita economica e benessere sociale.

🔗 Per un approfondimento sul legame tra digital divide culturale e Società 5.0 leggi anche questo articolo: Il divario digitale culturale ostacola lo sviluppo della Società 5.0.


È un approccio che riconosce come la trasformazione digitale non sia neutra: influenza la vita privata, le istituzioni, la struttura industriale e l’occupazione. In questo scenario, contrastare i nuovi analfabetismi funzionali diventa strategico, perché senza una cultura diffusa del digitale ogni innovazione rischia di restare incompleta o sterile.

Ed è proprio in questo passaggio che si misura la distanza tra visione e realtà. Il Giappone, con il concetto di Società 5.0, ha posto al centro la necessità di abbattere non solo barriere amministrative e legali, ma anche ostacoli culturali e di accettazione sociale. L’Italia, invece, si trova ancora a fare i conti con un analfabetismo funzionale, ed in particolare, digitale diffuso: un deficit cognitivo e culturale che limita la capacità delle persone e delle imprese di trasformare le tecnologie in valore.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di analfabetismo funzionale? Non si tratta più soltanto dell’incapacità di leggere o scrivere, ma della difficoltà a usare queste competenze di base per affrontare la vita quotidiana e il lavoro. È l’incapacità di interpretare un documento, leggere una tabella, valutare un’informazione in modo critico: una soglia che nelle società digitali si alza continuamente.

Per questo, oggi, il concetto si è trasformato in analfabetismo funzionale digitale: non basta più saper leggere e scrivere, serve saper navigare tra contenuti digitali, riconoscerne l’attendibilità, utilizzare piattaforme e strumenti in modo consapevole. È qui che emerge il nuovo digital divide, culturale e cognitivo.

I dati europei mostrano bene il fenomeno. Nell’Unione Europea il 55,6% della popolazione possiede competenze digitali di base; in Italia la percentuale scende al 45,8%. Il divario si riflette anche nelle imprese: solo il 17,8% delle aziende italiane offre formazione ICT ai propri dipendenti (UE 22,3%) e appena il 13,4% impiega specialisti ICT interni (UE 21%).

La stessa adozione delle tecnologie più avanzate resta limitata. Nel 2024 appena l’8,2% delle imprese italiane ha utilizzato almeno una soluzione di intelligenza artificiale, contro una media europea del 13,5%.
Tra le PMI, il 70,2% raggiunge un livello solo “base” di digitalizzazione, mentre appena il 26,2% ha pratiche avanzate.

Questi numeri raccontano una realtà chiara: l’Italia soffre di un analfabetismo funzionale digitale diffuso, che non è un problema individuale ma sistemico. Senza un investimento mirato in competenze e cultura digitale, il rischio è che l’innovazione resti appannaggio di pochi, mentre la maggioranza rimane spettatrice di una trasformazione che dovrebbe riguardare tutti.

La trasformazione digitale non è un processo neutrale: ridisegna le istituzioni, i mercati del lavoro, i rapporti sociali. Ma senza competenze diffuse rischia di ampliare disuguaglianze e fragilità. Per l’Italia, il nodo cruciale non è soltanto “avere più tecnologia”, ma coltivare cultura digitale.

Oggi meno della metà della popolazione ha competenze digitali di base, e solo una minoranza delle imprese forma i propri dipendenti o integra specialisti ICT. È un dato che spiega perché appena l’8,2% delle aziende italiane utilizzi l’intelligenza artificiale, mentre in Europa la media è del 13,5%. Non è un semplice ritardo statistico: è il sintomo di un analfabetismo funzionale digitale che limita la capacità di innovare e di competere.

Se, come mostra l’esperienza giapponese, il futuro passa da una Società 5.0 che integra cyberspazio e spazio fisico, allora il vero salto che l’Italia deve compiere non è tecnologico ma culturale. Significa investire in formazione continua, diffondere la consapevolezza critica, superare la dipendenza da fornitori esterni e sviluppare capacità interne.

In altre parole: il digital divide culturale non è un destino, ma una scelta.
Decidere di colmarlo significa aprire la strada a un modello di innovazione inclusivo, capace di generare valore economico e sociale.
Al contrario, ignorarlo significherebbe condannare il Paese a un ruolo marginale nella trasformazione globale in corso.

Nella Società dell’Informazione, l’alfabetizzazione informatica non è più opzionale: è indispensabile. Già negli anni Novanta Jeremy Shapiro e Shelley Hughes individuarono una serie di alfabetizzazioni che definiscono le competenze necessarie per vivere e lavorare in un mondo digitale.
A distanza di un quarto di secolo, quella classificazione resta sorprendentemente attuale.

Le principali tipologie sono:

  • Alfabetizzazione sugli strumenti
    la capacità di usare software, hardware, reti e strumenti multimediali, comprendendo anche i concetti di base che li regolano.
  • Alfabetizzazione delle risorse
    la capacità di orientarsi tra formati e metodi di accesso alle informazioni, riconoscendo come sono organizzate e classificate.
  • Alfabetizzazione socio-strutturale
    la consapevolezza che l’informazione è sempre prodotta e situata dentro istituzioni, reti sociali e processi collettivi.
  • Alfabetizzazione della ricerca
    la capacità di usare strumenti digitali avanzati per analisi, simulazioni e studi, conoscendone anche i limiti.
  • Alfabetizzazione editoriale
    la competenza nel pubblicare idee e ricerche in formato elettronico o multimediale, comprendendo come gli strumenti plasmino la scrittura e la comunicazione.
  • Alfabetizzazione tecnologica emergente
    l’attitudine ad adattarsi ai continui cambiamenti, valutando l’adozione di nuove tecnologie senza restare prigionieri dei vecchi strumenti.
  • Alfabetizzazione critica
    la capacità di valutare le tecnologie nel loro impatto storico, filosofico, sociale e culturale, immaginando nuovi obiettivi per una società in trasformazione.
TipologiaSignificato essenziale
StrumentiUsare software, hardware e reti, comprendendone le basi.
RisorseOrientarsi e accedere alle informazioni, riconoscendo formati e classificazioni.
Socio-strutturaleCapire come le informazioni nascono e circolano in istituzioni e reti sociali.
RicercaUsare strumenti digitali per analisi e simulazioni, conoscendone i limiti.
EditorialePubblicare idee e contenuti digitali adattando scrittura e comunicazione.
Tecnologica emergenteAdattarsi alle innovazioni continue e scegliere consapevolmente nuovi strumenti.
CriticaValutare l’impatto storico, filosofico e sociale delle tecnologie.

In assenza di queste alfabetizzazioni, cosa accade?

Le persone e le imprese diventano utenti passivi, incapaci di sfruttare davvero le tecnologie. La mole di informazioni digitali si trasforma in rumore e disinformazione; i dati restano inutilizzati; pochi soggetti producono contenuti, mentre la maggioranza resta spettatrice. La conseguenza è un sistema produttivo che non innova e non compete. Senza una cultura critica e adattiva, la tecnologia non viene governata, ma subita.
Se queste competenze non vengono sviluppate, gli effetti sono immediati e profondi.

  • Senza alfabetizzazione sugli strumenti
    le persone rischiano di restare utenti passivi, capaci solo di funzioni basilari ma incapaci di sfruttare davvero le potenzialità di software, reti e dispositivi.
  • Senza alfabetizzazione delle risorse
    la mole di informazioni digitali si trasforma in rumore: chi non sa orientarsi finisce per perdersi o affidarsi a fonti poco attendibili, con ricadute dirette su formazione, lavoro e cittadinanza attiva.
  • Senza alfabetizzazione socio-strutturale
    manca la consapevolezza del contesto in cui l’informazione nasce: non si riconoscono bias, interessi o dinamiche di potere, e questo favorisce manipolazione e disinformazione.
  • Senza alfabetizzazione della ricerca
    il mondo accademico e professionale resta monco: i dati esistono, ma non si è in grado di analizzarli o verificarli in modo autonomo.
  • Senza alfabetizzazione editoriale
    la comunicazione digitale diventa sbilanciata: pochi soggetti producono contenuti, mentre la maggioranza resta consumatrice passiva, con scarso impatto nel dibattito pubblico.
  • Senza alfabetizzazione tecnologica emergente
    si resta prigionieri di strumenti obsoleti e incapaci di cogliere le opportunità offerte dalle innovazioni, rallentando la competitività delle imprese e del sistema Paese.
  • Senza alfabetizzazione critica
    infine, la tecnologia viene subita: la società perde la capacità di interrogarsi sui costi, i limiti e i rischi delle scelte tecnologiche, e smette di immaginare alternative.

Il quadro italiano

Oggi meno della metà della popolazione (45,8%) possiede competenze digitali di base, contro il 55,6% della media europea. Solo il 17,8% delle imprese offre formazione ICT e appena il 13,4% impiega specialisti digitali interni (UE: 21%). Nel 2024 soltanto l’8,2% delle aziende italiane ha adottato tecnologie di intelligenza artificiale, contro il 13,5% della media UE. Questi numeri significano una cosa sola: il gap cognitivo e culturale è diventato un freno competitivo. Se le imprese non investono in cultura digitale, se la popolazione resta sotto la soglia minima di competenze, l’Italia non solo rallenta l’innovazione ma perde peso nelle catene del valore globali. Il risultato è un Paese che rischia di rimanere spettatore della trasformazione guidata da altri.
Impatto sulla competitività. Questo divario cognitivo sposta l’Italia ai margini delle catene del valore europee: meno produttività, meno attrattività degli investimenti, più dipendenza da soluzioni terze.
La leva più efficace non è solo tecnologica ma umana/organizzativa: formazione continua, specialisti ICT in-house, team ibridi business-IT-data, KPI di adozione digitale lungo i processi chiave.


Il digital divide culturale non è un destino: è una scelta politica e sociale.
Decidere di colmarlo significa rafforzare la competitività del sistema Italia, trasformando l’innovazione in crescita economica e in valore sociale. Al contrario, ignorarlo significa condannarsi a un ruolo marginale nella nuova economia della conoscenza.

L’Italia ha davanti a sé una sfida chiara: investire non solo in infrastrutture, ma soprattutto in cultura e competenze. È lì che si gioca la nostra capacità di restare protagonisti nel mondo che verrà.


Questa riflessione è parte di un percorso più ampio: in altri articoli ho parlato di digital divide culturale ➤ https://vittoriodublinoblog.org/category/digital-divide-culturale/ ) e di come l’Intelligenza Artificiale stia cambiando il nostro modo di pensare
➤ https://vittoriodublinoblog.org/category/intelligenza-artificiale/

17 pensieri riguardo “Digital Divide Culturale e nuovi Analfabetismi Funzionali sono un’ostacolo per l’Innovazione

Aggiungi il tuo

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑