l’IMPRENDITORE (SOCIALE) … può contribuire al benessere collettivo?

Qualche giorno fa, un mio amico, impegnato in politica, ha pubblicato un post su Facebook in cui elogiava un candidato sindaco. Secondo lui, questo candidato, in quanto imprenditore, avrebbe potuto pensare e agire meglio dell’attuale sindaco, un magistrato, nell’amministrazione della città. Questo spunto mi ha portato a riflettere su alcune domande.

Gli imprenditori sono promotori di cambiamento? Possono essere responsabili di trasformazioni sociali? Possono essere anche imprenditori sociali? E, in quanto tali, sono in grado di modellare i paesaggi socio-istituzionali in cui operano? Come contribuiscono ai processi di evoluzione istituzionale e di apprendimento sociale? Insomma, possiamo considerarli innovatori sociali?

Se il Progresso è strettamente legato all’Innovazione, allora l’Innovatore può essere considerato anche un Imprenditore.

L’economista austriaco Joseph Schumpeter, nella sua Teoria dell’Economia dell’Innovazione, pur rimanendo fedele alla sua idea di Imprenditore, sosteneva che quest’ultimo fosse l’unico capace di “salvaguardare” il capitalismo. Schumpeter riteneva che l’imprenditore, grazie alla sua capacità di rompere l’equilibrio del sistema economico, fosse in grado di proporre nuove combinazioni di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nei processi produttivi e nella circolazione dei beni – generando così una discontinuità nello sviluppo economico.

Tuttavia, nel suo testo del 1942, Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Schumpeter aveva anche previsto il declino del capitalismo. Nonostante le sue convinzioni, egli suggeriva che la civiltà futura sarebbe stata inevitabilmente impostata su una base più sociale (o socialista), poiché riteneva che “il socialismo avesse maggiori possibilità di garantire sviluppo e innovazione rispetto al sistema capitalistico

Schumpeter lasciò questo mondo nel 1950 e, per questo, non ebbe modo di osservare gli esiti della cosiddetta “terza guerra mondiale.” Alcuni intellettuali, infatti, tendono a definire così la passata Guerra Fredda, un conflitto ideologico combattuto dalle due superpotenze, e dai loro alleati, promotrici delle due ideologie socio-politiche dominanti nel XX secolo. La vittoria del blocco capitalista su quello comunista sembrò, a prima vista, smentire la previsione di Schumpeter, sancendo apparentemente il fallimento dell’ideologia socialista.

Ma è davvero così? A distanza di 30 anni, non sembra. Se osserviamo attentamente i risultati raggiunti da alcuni sistemi economici che hanno combinato i principi del capitalismo con quelli di matrice socialista, emerge una conferma delle tesi del nostro filosofo economista. L’esempio più lampante è il sistema economico cinese, che alcuni economisti definiscono “Capitalismo Sociale.


“Il capitalismo sociale è emerso come una nuova forma di economia, storicamente nata ed affermata  in alcuni paesi nordici dell’Europa e, dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto in Cina. A causa della crescita della popolazione cinese, la nazione ha avuto bisogno di più infrastrutture per le sue città e le sue regioni in crescita. La domanda di innovazione, tuttavia, è stata caratterizzata da una forte preoccupazione per le persone e, successivamente,  per l’ambiente. La Cina è consapevole che, se vuole soddisfare le esigenze di una nazione oltre 1,4 miliardi di persone, deve anche fornire infrastrutture di base che vanno dall’energia, all’acqua, ai rifiuti, al trasporto e la rete internet che siano in grado di non arrecare danni in futuro alla comunità, piuttosto un benessere crescente.”


La Cina, storicamente, ha una lunga tradizione culturale di attenzione ai bisogni della società.

Sotto la guida di Mao e dopo la Rivoluzione Culturale, il paese ha sviluppato piani quinquennali strategici che hanno orientato le azioni dei governi centrali e regionali, definendo concreti piani finanziari per sostenerli. Attualmente, la Cina è giunta al suo dodicesimo piano quinquennale, che si concentra fortemente sulle energie rinnovabili, con un impegno significativo di miliardi di dollari statunitensi per attuare i piani d’azione stabiliti.

Tutti e dodici i piani quinquennali precedenti hanno raggiunto i loro obiettivi. Con l’attuazione di questo piano e di quelli futuri già programmati, la Cina ha “scavalcato” altre nazioni e si trova alla guida della rivoluzione industriale verde, che si sta affermando in tutto il mondo.

… anche se … non sono tutte rose e fiori.


“Ricercatori e funzionari chiedono il miglioramento del livello di vita dei ‘Mingong’ (sono così chiamati i migranti operai-contadini che rappresentano il 79,8% dei lavoratori occupati nell’edilizia urbana, il 68,2% della manodopera della produzione elettronica, il 58% della ristorazione e così via …) l’assicurazione di un alloggio nelle città dalle quali la speculazione immobiliare li esclude, la garanzia di una sanità pubblica a fronte di una popolazione priva di tutela sociale e la certezza di un’educazione ai loro figli che, in gran parte, non hanno accesso al sistema educativo urbano. E’ così sorta una corrente di “capitalismo sociale” che riunisce sociologi, giornalisti, deputati, funzionari o semplici membri del Pcc, che concordano nel ritenere il capitalismo un elemento positivo solo se accompagnato da adeguate politiche sociali: primo fra tutte un meccanismo di ripartizione delle ricchezze. Difendono inoltre l’idea di “un livellamento delle classi medie” della società cinese, unico baluardo contro una guerra tra ricchi e poveri e ritengono che una parte dei migranti dovrebbe accedere a questo nuovo ceto medio. Questa corrente si oppone, solo talvolta duramente, ai “liberisti”, poco propensi a prestar ascolto alla questione sociale e convinti che solo un governo forte sia in grado di imporre il mercato. Alcuni tra questi “social-capitalisti” hanno un’idea molto nazionale del capitalismo e sognano multinazionali pubbliche in grado di regnare sul mondo. Quindi la questione del lavoro in Cina si iscrive oggi in un movimento complesso di opinioni diverse all’interno di un’élite limitata, che comprende non solo i responsabili del Partito comunista e gli alti funzionari, ma anche i responsabili dei movimenti di massa e l’intelligentia. L’adozione di politiche sociali a favore dei migranti appare inoltre problematica non solo per ragioni legate alle disponibilità finanziarie, ma anche per l’impatto di queste “concessioni” sulla persistenza del miracolo cinese; molti dirigenti si interrogano se l’aumento del costo del lavoro e dei vantaggi sociali, possa mettere a rischio la competitività dell’economia e ritardare lo sviluppo di una parte del paese, l’ovest, tenendolo ancora isolato. L’aumento dei salari e dei vantaggi sociali, in particolare a Shanghai e nel Fujian, dove i datori di lavoro non sembrano lamentarsi della penuria di manodopera, spingono molti migranti a lasciare il Guangdong per risalire verso il nord. In Cina la percentuale della disoccupazione è molto bassa, il 4,1% tra la popolazione urbana alla fine del 2006, ma questo dato è poco affidabile perché la definizione di disoccupazione adottata dalle autorità è assai restrittiva: non include i migranti senza lavoro, gli operai licenziati (xiagang zhigong), che mantengono ancora un legame salariale con l’azienda,i disoccupati che stanno per perdere i loro diritti e i giovani senza lavoro privi di qualunque indennizzo. Se si aggiungono poi molti ex impiegati pubblici rimasti disoccupati che trovano lavoro solo come ausiliari della polizia stradale, come guardiani o giardinieri, la disoccupazione sale all’8,4%. Attualmente non esiste in Cina un gruppo sociale coeso di disoccupati, ma differenti categorie di persone senza lavoro che non condividono le stesse rivendicazioni e che possono risultare socialmente destabilizzanti. Le ultime valutazioni in materia fanno emergere una situazione molto tesa. Dopo il XVI Congresso del Partito comunista cinese la provincia del Liaonyng e la sua capitale Shenyang sono state definite “zona di sviluppo prioritario”: questa parte dell’ex Manciuria, a solo un’ora di aereo da Pechino, è sprofondata nella miseria, come è successo ad altre regioni industriali alla fine degli anni ’90. Delle acciaierie, degli altiforni, delle cementerie che davano lavoro a migliaia di operai, non è rimasto più nulla. Il piano di “razionalizzazione della siderurgia” ha spazzato via interi quartieri prima occupati dalle baracche degli operai: lungo i viali di molte città, un tempo brulicanti di attività industriali, si vedono fabbriche ristrutturate o nuove, grandi autosaloni di macchine straniere, vetrine luccicanti di tutte quelle attività commerciali che hanno beneficiato della cosiddetta “politica di apertura”. Il lavoro collettivo e l’orgoglio operaio rimangono ormai solo un ricordo, da quando i nuovi proprietari delle imprese hanno smantellato le fabbriche. Le prime vittime sono state i lavoratori più anziani, che hanno più difficoltà ad adattarsi e ad accettare un nuovo lavoro, che ritengono poco qualificato e pagato meno di 300 yuan al mese. Come tutte le mattine, negli angoli delle strade delle città-cantiere invase dalle gru, sono decine gli uomini e le donne accovacciati sui talloni, con un cartello a tracolla sul quale sono descritte le proprie competenze: edilizia, elettricità, verniciatura, lavori domestici…Si tratta di un mercato del lavoro a cielo aperto, dove privati e imprenditori vengono ad affittare, per pochi yuan, un lavoratore alla giornata, alla settima e, solo raramente, al mese. A Shenyang gli edifici spuntano come funghi, nella più completa anarchia, con facciate dorate e tetti a pagoda; lo stesso Mao Zedong, in mezzo alla piazza Zhongshan, è mobilitato per la lunga marcia della commercializzazione, con il braccio teso non più verso un futuro radioso, ma verso i cartelloni pubblicitari di alcune grandi marche straniere che lo circondano. Nel 2006 il governo di Pechino avrebbe dovuto fornire 25 milioni di posti di lavoro agli abitanti delle città, di cui 9 milioni ai nuovi arrivati sul mercato del lavoro, 3 milioni ai migranti e 13 milioni ai lavoratori che avevano perso il lavoro a causa, soprattutto, della ristrutturazione del settore pubblico. In realtà ne sono stati creati soltanto 11 milioni e anche nel 2007, secondo il rapporto governativo, a fronte di 24 milioni di nuovi entrati, i posti di lavoro contrattuali, che danno diritto alla sicurezza sociale, sono stati solo 12 milioni. Il pericolo della disoccupazione urbana non colpisce solo la generazione dei lavoratori abituati alla “ciotola di riso in ferro”, ma anche i giovani operai meglio preparati e più idonei al mercato. Da un’inchiesta fatta nel 2005 in quattro città -Dalian, Tianjin, Changsha e Liuzhu- si evince che la disoccupazione giovanile (15-29 anni) raggiungeva il 9% contro il 6,1% dell’insieme della popolazione urbana. Gran parte dei lavori giovanili non ha protezione sociale, né stabilità; i giovani lavorano molte ore e per salari bassi. Aumenta così il lavoro informale: si tratta essenzialmente di persone non qualificate che escono dal sistema scolastico con un livello equivalente alla maturità, che non “fanno concorrenza” ai migranti accettando lavori “umili” e che non possiedono la formazione richiesta per lavorare nei nuovi settori. Della lunga schiera di giovani in attesa di lavoro si incaricano “i comitati di residenti” e “gli uffici di strada” (il livello inferiore dell’amministrazione). Essi occupano posti più o meno provvisori nel settore non commerciale come vigilanti e manutentori, o posti di basso livello nelle nuove attività commerciali che si sviluppano nei quartieri, come alberghi, grandi ristoranti e negozi. Godono di una certa disponibilità di posti nelle funzioni subalterne, ma sono meglio remunerati e hanno un’immagine migliore di quella affidata ai migranti. Essi costituiscono a poco a poco una specie di “proletariato” assistito, intermedio tra la classe media e i migranti; si rifiutano di occupare posti declassati, vivono a spese dei genitori che, se ne hanno la possibilità, li mandano all’estero, per ottenere il diploma in una scuola di commercio di secondo livello o in una scuola alberghiera. Ma la disoccupazione colpisce anche i diplomati dell’insegnamento superiore. Oggi l’economia cinese stenta ad assorbire questi giovani disoccupati, la metà dei 9 milioni di “arrivati” sul mercato del lavoro nel 2006 e che puntano su un lavoro nei nuovi settori: si ritiene che già il 60% dei diplomati del 2006 non abbia trovato lavoro durante quell’anno! Occorre tuttavia rilevare un paradosso: da un lato le grandi aziende cinesi si lamentano di non disporre di una manodopera (hi-tech), dall’altro i giovani diplomati vivono situazioni drammatiche. Di fronte alla gravità della situazione l’Assemblea nazionale ha affrontato la questione di una legge sulla promozione del lavoro che favorisca il coordinamento tra città e campagne, la formazione professionale e l’aiuto ai giovani diplomati nel loro primo impiego. L’attuazione di questi obiettivi dipenderà dai provvedimenti concreti che saranno adottati dalle autorità nazionali e locali: in realtà il mondo del lavoro cinese è poco “conosciuto”, le inchieste sono rare e frammentate, le statistiche ufficiali raramente attendibili. Anche la diversità delle forme di fruizione della manodopera si iscrive in una logica di economia politica, in cui la stabilità resta l’obiettivo essenziale” (*)


…Tuttavia…

Oggi, la Cina, una nazione che conta un miliardo e mezzo di individui e che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, vedeva la stragrande maggioranza della sua popolazione in uno stato di arretratezza economica da terzo mondo, sta registrando una costante crescita dei redditi dei suoi cittadini. Questo risultato è in gran parte attribuibile alla Dimensione Culturale, il cosiddetto Dinamismo Confuciano di Hofstede, che caratterizza il Paese e il suo popolo. “nel 2016 il reddito disponibile nazionale pro capite ha raggiunto i 23.821 yuan, in crescita del 44,3 per cento rispetto al 2012. Nelle aree rurali particolarmente povere il tasso di crescita ha continuato ad essere superiore alla media nazionale delle altre zone rurali, continuando a crescere ad un ritmo medio annuo del 10,7 per cento. Secondo gli obiettivi del governo entro i prossimi quattro anni, fintanto che la crescita media annua è al di sopra del 5,3 per cento, sarà possibile raddoppiare il reddito nazionale. L’economia cinese ha registrato una crescita sorprendente negli ultimi decenni che ha portato il paese a diventare la seconda economia più grande del mondo. Nel 1978, quando la Cina ha avviato il programma delle riforme economiche, ideato da Den Xiaoping (leader de facto della Cina fino al 1992) il paese era al nono posto per prodotto interno lordo (Pil), che era pari a 214 miliardi di dollari. 35 anni dopo è salito al secondo posto con un Pil nominale di oltre 9 mila miliardi di dollari.” (**)

Schumpeter offre una lettura specifica di alcuni aspetti del lavoro, concentrandosi sull’imprenditore, l’innovazione e la sua celebre idea di “distruzione creativa” e sul loro ruolo nello sviluppo economico. Egli sosteneva che, per affrontare problemi complessi legati alla sostenibilità, sarà fondamentale che il settore pubblico assuma un ruolo proattivo di abilitazione. Questo ruolo deve essere incentrato sulla creazione delle condizioni necessarie affinché l’innovazione sociale e l’imprenditoria sociale (altruista) possano prosperare e sostenere lo sviluppo, contrastando le aberrazioni dell’interesse privato, ovvero quell’interesse promosso dall’imprenditoria egoista, orientata esclusivamente alla massimizzazione del profitto per i propri azionisti e titolari.

Ma cos’è un innovatore sociale, e chi è l’imprenditore sociale?

Gli innovatori e gli imprenditori sociali assumono un ruolo cruciale in un contesto in cui complicati problemi sociali stanno compromettendo la giustizia e la sicurezza sociale per la maggioranza dei cittadini, e problemi ambientali complessi stanno sfidando la sostenibilità del progresso globale, mettendo persino a rischio la sopravvivenza felice dell’intera umanità.

Questi individui, esperti e socialmente orientati, cercano di affrontare i problemi più urgenti della società, promuovendo l’innovazione sociale in campi come la sanità, l’agricoltura, l’istruzione, l’ambiente, il welfare e i diritti umani. Utilizzano nuovi approcci, sperimentano prodotti e applicazioni innovative, selezionando rigorosamente nuove tecnologie e strategie conosciute per risolvere questi problemi.

Ciò che li distingue è il modo in cui perseguono questi obiettivi. Simili agli imprenditori tradizionali, gli imprenditori sociali operano con determinazione e utilizzano metodi commerciali per creare organizzazioni finanziariamente sostenibili, spesso con un flusso di reddito generativo incorporato nel loro modello di business. Le parole chiave che caratterizzano gli imprenditori sociali sono: innovazione, sostenibilità, portata e impatto sociale.

Le imprese sociali sono spesso confuse con le organizzazioni non governative (ONG), ma si tratta di una semplice confusione …?  Esistono infatti fondamentali differenze tra le due. Le ONG si basano principalmente su contributi di beneficenza e finanziamenti pubblici, mentre le imprese sociali progettano per innovare in funzione sociale, cercando di diffondere nuove conoscenze,  e mirano a generare entrate sufficienti per sostenersi finanziariamente in modo autonomo. Queste ultime creano un flusso costante di entrate, stipulano contratti di prestito o si rivolgono a investitori etici per ottenere sovvenzioni, formare partnership e sviluppare altre strategie di sostenibilità.

Sebbene già nel XIX secolo ci fossero molti imprenditori impegnati per i diritti dei bambini, l’emancipazione delle donne, lo sviluppo socio-economico e le questioni ambientali, il concetto di impresa sociale è relativamente recente. Negli anni ’60 del XX secolo, durante il boom economico in Occidente, questo concetto fu criticato e considerato inutile. Tuttavia, è stato grazie al premio Nobel Muhammed Yunus, nel 2006, che l’idea di imprenditoria sociale ed etica ha riconquistato la sua legittima attenzione. Yunus ha avuto un enorme successo portando alla ribalta importanti iniziative imprenditoriali sociali.

Nel 1976, Yunus fondò la Grameen Bank in Bangladesh, un’istituzione che offre microcrediti a percettori di basso reddito per promuovere la crescita economica di base e l’autosufficienza finanziaria. Il successo di Yunus ha contribuito a legittimare lo studio dell’imprenditoria sociale nelle scienze economiche e sociali. È emerso che le sue basi concettuali possono essere ricondotte al pensiero di economisti come Schumpeter, Kirzner e Keynes.

Il premio Nobel per l’economia del 2001, Joseph Stiglitz, un economista spesso citato anche dal politico Matteo Salvini durante le sue campagne elettorali, si dedica da molti anni alla “ricerca sulle disuguaglianze e sui loro devastanti effetti in termini di sviluppo sociale e benessere collettivo”. Stiglitz riprende chiaramente il pensiero di Schumpeter, arrivando a criticare apertamente il modello economico capitalista statunitense, che, secondo lui, sta generando così tanti problemi da minacciare la democrazia: «…chi continua a considerare l’America un modello dovrebbe rifletterci: questa piega degli eventi ha la sua radice proprio negli Stati Uniti (…) Le ingiustizie sociali sono arrivate a un punto tale da minacciare la democrazia in tutto il mondo.»

“La democrazia può funzionare solo dove c’è sviluppo e benessere.”

Dunque, dovremmo chiederci:

Gli imprenditori sono promotori di cambiamento? Possono essere responsabili di trasformazioni sociali? Possono anche essere imprenditori sociali?

La mia risposta è sì, a patto che riescano a essere imprenditori etici, capaci di comprendere cosa sia l’Economia dell’Identità   !

Apriamo il dibattito …


Note di approfondimento

(*) da “La questione sociale in Cina” in “LE NUOVE RELAZIONI SINO-INDIANE”, Tesi di laurea di Daniela Piano,  UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI – FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE -CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI

(**)Fonte: Agenzia NOVA

References

  • “Social Capitalism: China’s Economic Raise”. In: Clark II W. (eds) The Next Economics. Springer, New York, NY
  • “Lavoro e innovazione per riformare il capitalismo, a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Ediesse, 2018
  • J.McNeill,“Through Schumpeter: Public policy, social innovation & social entrepreneurship”, 2012, The International Journal of Sustainability Policy and Practice
  • D. Mazzotti, “Il capitalismo egoista e il capitalismo sociale”, 2009, Codice Edizioni
  • “Stiglitz: “La ricchezza nelle mani di pochi una tragedia collettiva che minaccia la democrazia”, 2019, di E. Occorsio, Repubblica.it
  • “ECONOMIA DELL’INNOVAZIONE NEI DCS: STIGLITZ RESUSCITA SCHUMPETER”, 2014, di M.J.Stettler, SmartWeel.it
  • J. Gruin, “The social order of Chinese capitalism: socio-economic uncertainty, communist party rule and economic development”, 1990–2000″, 2016, Journal of Economy and Society

#aggiornato e ripostato 17/10/2024


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4 pensieri riguardo “l’IMPRENDITORE (SOCIALE) … può contribuire al benessere collettivo?

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  1. Da “La proprietà è un furto” di Proudhon fino ad oggi non ne hanno detta una giusta. La storia del socialismo è solo un lungo elenco di fallimenti, conflitti, guerre, miseria, regimi totalitari mascherati da democrazia. Ma stranamente non vogliamo capirlo. Anche il nazismo è nato socialista. Ma lo chiamano sempre in forma abbreviata, “Nazismo”, per nascondere il nome completo che è “Nazional-Socialismo”. Sono un cancro “sociale”.

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  2. Certo, sono d’accordo con te … per questo cito il Capital-Socialismo … rendendomi conto (insieme a tanti eminenti osservatori e titolati economisti) di ‘dove’ le aberrazioni del ‘semplice’ Capitalismo’ ci stanno conducendo ….

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