La Coscienza variabile

E se la Coscienza fosse una variabile dimenticata dell’equazione del reale?
Riflessione ai confini tra scienza, spiritualità e frontiere cognitive

Viviamo immersi in un paradigma che separa l’osservatore dall’osservato, la mente dal mondo, la coscienza dalla materia. È l’eredità cartesiana, il pensiero meccanicista che ha fatto grande la scienza moderna.
Ma che, forse, ha lasciato fuori qualcosa di fondamentale: noi stessi.

In questa epoca dominata dall’intelligenza artificiale, dalla futura computazione quantistica e dalla sorveglianza algoritmica, ci troviamo paradossalmente a interrogare i misteri più antichi della coscienza.
Non più solo per sapere cosa essa sia, ma per comprendere quanto influenzi ciò che chiamiamo realtà?
Ed è proprio qui che la domanda diventa vertiginosa:

e se la coscienza fosse una variabile mancante? Un parametro dimenticato, rimosso dall’equazione della fisica, dell’economia, della politica, ma in grado di spiegare fenomeni che restano ai margini della scienza ufficiale?

Il piccolo villaggio inglese di Scole, negli anni ’90, è stato teatro di una serie di esperimenti straordinari condotti da un gruppo medianico.
Le sedute, rigorosamente al buio, coinvolgevano la presunta manifestazione di luci autonome, la comparsa di oggetti (i cosiddetti apporti) e la ricezione di comunicazioni da entità non visibili. Lo Scole Report, redatto da Montague Keen, Arthur Ellison e David Fontana e pubblicato nel 1999 dalla Society for Psychical Research, documenta questi eventi con lo spirito di un’indagine scientifica sui limiti della percezione e dell’interazione con l’invisibile. I tre autori, pur con cautele, si dissero convinti che i fenomeni osservati non potessero essere ridotti a frode o illusione.

Nel frattempo, su un piano completamente diverso eppure misteriosamente parallelo, il movimento di Maharishi Mahesh Yogi stava portando avanti una serie di esperimenti sociali fondati sulla meditazione collettiva. Il cosiddetto “Effetto Maharishi” ipotizzava che un numero sufficiente di meditatori, praticando insieme tecniche specifiche (la Meditazione Trascendentale e i programmi TM-Sidhi), potesse generare effetti misurabili sul comportamento collettivo di una popolazione.
Studi come quello di Orme-Johnson (2022) riportano significative riduzioni nei livelli di criminalità e violenza urbana in coincidenza con queste pratiche.
Naturalmente, le critiche non mancarono: correlazione non implica causalità, e le variabili non controllate restano molte. Tuttavia, i dati sollevano interrogativi che non possono essere ignorati con leggerezza.


Lo studio pubblicato nel 2022 (Field-Effects of Consciousness, Orme-Johnson et al.) ha analizzato i dati relativi agli effetti della meditazione collettiva in gruppo (TM e TM-Sidhi) sulla riduzione dello stress sociale negli Stati Uniti, dal 2000 al 2016. I risultati indicano che, durante il periodo in cui il gruppo di meditatori superava la soglia del √1% della popolazione americana, si sono verificati significativi cali nei tassi di omicidi, rapine, incidenti stradali, morti infantili e per droga. Quando il gruppo è diminuito, gli indicatori sono risaliti.
Rigore o correlazione? Lo studio impiega modelli statistici avanzati (ARIMA, Interrupted Time Series), ma resta al confine tra correlazione e causalità. Non è un esperimento randomizzato. E sebbene siano considerate molte variabili di controllo (economiche, politiche, demografiche), resta il dubbio che fattori non considerati possano aver influenzato i risultati.
Spiritualità travestita da scienza? La visione proposta deriva direttamente dal pensiero di Maharishi Mahesh Yogi, e si fonda su una concezione vedica della coscienza come campo unificato.

Questo può apparire suggestivo, ma rischia di far percepire la ricerca come ideologicamente orientata, se non addirittura propagandistica.
E’ una narrazione potente, l’idea che un piccolo gruppo coerente possa armonizzare la società è affascinante e controintuitiva. Parla a una sete diffusa di soluzioni non violente, interiori, sistemiche. Ma la sua forza comunicativa rischia di superare quella dimostrativa.
In sintesi, non siamo ancora nel regno delle prove definitive. Ma nemmeno possiamo liquidare questi studi come illusioni new age. Forse, come scriveva William James, “vale la pena esplorare anche i margini del reale”. Purché con spirito critico e senza perdere il senso del dubbio.

A questo proposito, un altro contributo può esserci di aiuto approcciando il tema della Fisica Sincronica – elaborato dallo scienziato Paolo Silvestrini – una riflessione che tenta di collegare la coscienza ai fenomeni quantistici attraverso l’idea di connessioni significative e non causali tra eventi.
Fisica Sincronica: esplorando la connessione tra fisica quantistica e coscienza


A Princeton, negli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori guidati dallo scienziato Roger Nelson decideva di portare questa ipotesi all’estremo.
Se la coscienza individuale può, in qualche modo, influenzare eventi casuali — come aveva iniziato a suggerire il lavoro del PEAR Lab (Princeton Engineering Anomalies Research) fondato da Robert G. Jahn e Brenda J. Dunne –  allora cosa accadrebbe se miliardi di menti, simultaneamente concentrate su un unico evento, generassero un’onda di coerenza tale da lasciare una traccia nel campo del caso?

Così nasceva il Global Consciousness Project nel 1998. Una rete mondiale di Random Event Generators (REG), dispositivi progettati per produrre sequenze di numeri assolutamente casuali, veniva installata in decine di paesi.
Il principio era semplice e ardito al tempo stesso: osservare se eventi globali di forte impatto emotivo – come l’attacco dell’11 settembre, la morte di Lady Diana, i festeggiamenti del Capodanno del 2000 – potessero coincidere con deviazioni significative nella produzione di casualità.

Uno degli episodi più rilevanti, oltre all’11 settembre, è quello dello tsunami dell’Oceano Indiano, avvenuto il 26 dicembre 2004.
I REG del GCP mostrarono una chiara deviazione statistica nelle ore immediatamente precedenti e successive alla tragedia. I dati raccolti, pubblicati sul sito del progetto, indicarono un comportamento anomalo del sistema globale, quasi come se la rete avesse registrato un’onda di coerenza scaturita dalla sofferenza collettiva che quell’evento aveva generato.
In un comunicato, il team di Nelson osservò che la varianza del sistema cominciò a cambiare già al momento del sisma, proseguendo nelle ore successive, in un andamento coerente con altri eventi ad alta intensità emozionale.

I risultati, pubblicati in studi come Nelson et al. (2002), Correlations of random binary sequences with major world events, sembrano indicare proprio questo: in quei momenti di alta risonanza emozionale planetaria, il caso stesso si comportava in modo meno casuale.


“Come può un evento influenzare il caso prima che accada?”

L’episodio del 26 dicembre 2004, con il devastante tsunami dell’Oceano Indiano, ha sollevato una questione intrigante. I dati dei REG del GCP iniziano a mostrare deviazioni dalla casualità già poco prima del sisma stesso, cioè prima che la notizia potesse diffondersi globalmente. Ma com’è possibile? I terremoti non si possono prevedere, e dunque la coscienza collettiva non poteva “sapere” ciò che stava per accadere… Diverse ipotesi sono state avanzate:

  • Risonanza anticipata
    forse la coscienza collettiva non agisce solo in modo razionale, ma possiede una forma di sensibilità profonda e diffusa, in grado di registrare “campi di significato” anche prima della consapevolezza esplicita.
  • Propagazione emotiva progressiva
    un’interpretazione più prudente suggerisce che le anomalie siano legate alla lenta diffusione della notizia, che ha iniziato ad attivare una risposta collettiva prima della piena coscienza globale.
  • Ipotesi non-locale o retro-causale
    in linea con alcune interpretazioni della meccanica quantistica, è stato ipotizzato che l’influenza della coscienza non sia vincolata dal tempo lineare. In questa visione, l’evento tragico “collassa” il campo probabilistico anche a ritroso.

Nessuna di queste teorie è confermata, ma il fatto che i dati mostrino qualcosa che sfida l’atteso è sufficiente a giustificare ulteriori esplorazioni. In fondo, anche l’anomalia è una forma di conoscenza, quando non la si rimuove ma la si ascolta.



Non si tratta di prove definitive, e lo stesso Nelson lo riconosce.
Ma le anomalie statistiche osservate pongono una domanda che brucia sotto la pelle del paradigma: è possibile che la coscienza collettiva – non solo come metafora poetica, ma come campo reale –  eserciti un’influenza misurabile sul mondo fisico?

Nel laboratorio PEAR, fin dagli anni Ottanta, questa ipotesi veniva messa alla prova con rigore matematico. Gli esperimenti con i REG mostravano che, sebbene l’effetto fosse piccolo, esso era statisticamente rilevabile e coerente. Jahn e Dunne, nel loro testo fondamentale Margins of Reality (1987), esplorano la possibilità che la coscienza sia un’entità attiva, in grado di dialogare con la materia, non in modo spettacolare o violento, ma attraverso leggere flessioni della probabilità.


Anche in assenza di una piena verificabilità sperimentale, studi come quello sull’Effetto Maharishi e il Global Consciousness Project offrono alla ricerca una funzione preziosa: rimettere in discussione l’assunto che la coscienza sia irrilevante, suggerendo che essa potrebbe essere una variabile ancora inesplorata dell’equazione del reale.


Questa visione richiede una revisione profonda dell’ontologia scientifica.
Come scrive David Chalmers nel suo celebre articolo del 1995:  il “problema difficile’ della coscienza non consiste nello spiegare i meccanismi neurali, ma nel comprendere come e perché essi generino esperienza soggettiva
La coscienza, afferma David Chalmers, potrebbe essere una proprietà fondamentale dell’universo, non derivabile da nulla di più semplice.

Da qui nasce un’altra domanda scomoda: la coscienza è individuale o collettiva?
È una proprietà emergente del cervello o un campo con cui il cervello entra in risonanza?

Autori come Carl Gustav Jung, con il suo concetto di inconscio collettivo, o Pierre Teilhard de Chardin, con la sua idea di noosfera, hanno proposto visioni in cui la mente non è chiusa in se stessa ma parte di un ecosistema cognitivo condiviso.
In questa prospettiva, fenomeni come quelli registrati dal GCP o evocati dal Scole Report non appaiono più come deviazioni patologiche, ma come segni di una dimensione della realtà ancora non cartografata.



“Al di sopra e al di là della biosfera si è formata, attraverso l’umanità, un’altra membrana pensante, una noosfera, una sfera del pensiero, una membrana riflessiva di coscienza collettiva
(Teilhard de Chardin – Il Fenomeno Umano)

È in questo spazio liminale, sospeso tra rigore e meraviglia, che può nascere una nuova epistemologia.
Un sapere che non rinuncia al dubbio, ma anzi lo assume come metodo. Che non pretende verità definitive, ma coltiva interrogativi radicali.
Forse non possiamo ancora dimostrare che la coscienza modifica la realtà, ma ignorare la possibilità che lo faccia – solo perché non rientra nei modelli attuali – potrebbe essere il più grande limite del nostro tempo.

Nel dubbio, resta la ricerca. Resta l’ipotesi. E forse, resta anche una forma di ascolto diverso, capace di cogliere ciò che la misura non riesce ancora a dire.

Come disse Niels Bohr:

“Il contrario di una verità profonda è un’altra verità profonda”

E forse, proprio nella tensione tra verità opposte, che si nasconde

la vera natura del Reale.


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