Mindset di crescita: l’intelligenza si può allenare! ELOGIARE L’INTELLIGENZA o ELOGIARE L’IMPEGNO?

Nel mio precedente articolo ho introdotto il concetto di Mindset, citando la teoria di Carol Dweck cioè l’idea che possiamo migliorare le capacità del nostro cervello di imparare e risolvere i problemi. Gli interessi primari di ricerca della Dweck sono la motivazione, la personalità e lo sviluppo. I suoi contributi chiave alla psicologia sociale riguardano le teorie implicite dell’intelligenza, descritte nel suo saggio “Mindset: The New Psychology of Success”.

Secondo Dweck, gli individui possono essere collocati su un continuum in base alle loro opinioni implicite sulla genesi delle capacità. Alcuni credono che il loro successo sia basato su capacità innate, assumendo una concezione del sé basata sulla convinzione di un livello di intelligenza immutabile, avendo un Mindset Fisso. Altri, che credono che il loro successo si basi invece sul duro lavoro, sull’apprendimento, sulla formazione e sulla tenacia, basano questa convinzione sulla teoria incrementale dell’intelligenza, mantenendo uno Stato Mentale Aperto.

Gli individui potrebbero non essere necessariamente consapevoli di quale tipo sia il proprio Mindset, ma le loro mentalità possono essere individuate in base ai loro comportamenti. Ciò è particolarmente evidente nelle loro reazioni al fallimento. Gli individui con Stato Mentale Fisso temono il fallimento perché lo considerano un’affermazione negativa sulle loro capacità di base, mentre gli individui con Stato Mentale Orientato alla Crescita non temono tanto il fallimento perché si rendono conto che le loro prestazioni possono essere migliorate e che, talvolta, l’apprendimento deriva dal fallimento. Queste due mentalità svolgono un ruolo importante in tutti gli aspetti della vita di una persona.

Dweck sostiene che la mentalità di crescita consentirà a una persona di vivere una vita meno stressante e di maggior successo.

La ricerca di Carol Dweck sulla motivazione l’ha portata a condurre esperimenti su bambini e giovani.

I risultati sono sorprendenti. Se tendiamo a elogiare i nostri figli per la loro presunta intelligenza, credendo di aumentarne l’autostima e migliorare i loro risultati, dobbiamo tenere presente che più di trent’anni di ricerche dimostrano che simili lodi possono essere, in realtà, controproducenti.

“Concentrarsi sullo sforzo, e non sul genio e le capacità, è il segreto del successo negli studi e nella vita”, afferma la psicologa americana Carol Dweck, che studia da decenni le reazioni umane agli insuccessi.

Nel 1998 Dweck condusse, insieme a Claudia Mueller, un famoso studio comparativo che confrontava la motivazione e i risultati di bambini elogiati per l’intelligenza con quelli di bambini lodati per i loro sforzi scolastici.

A sei gruppi di soggetti di dieci e undici anni furono assegnati diversi compiti con alcuni problemi da risolvere. Dopo il primo compito, tutti ricevettero i complimenti per la bravura, indipendentemente dal punteggio di ciascuno.

Ad alcuni fu detto: “Devi essere intelligente per risolvere questi problemi”, mentre ad altri: “Avrai riflettuto molto su questi problemi”. Man mano che le prove successive diventavano sempre più difficili, ed era possibile scegliere quali esercizi svolgere, i risultati mostravano differenze enormi tra i due gruppi.

Chi era stato elogiato per l’intelligenza era molto più preoccupato di non riuscire. In caso di errore, i bambini riconosciuti come intelligenti attribuivano la responsabilità di un risultato scarso a una mancanza di acume, mentre gli altri ritenevano di non essersi impegnati abbastanza.

Quando ai soggetti fu permesso di scegliere il compito, i “sgobboni” optavano per quelli da cui potevano imparare qualcosa di nuovo, mentre i “geni” preferivano esercizi che potevano eseguire bene ed erano più interessati a sapere come se l’erano cavata gli altri, piuttosto che ad apprendere nuove soluzioni ai problemi.

Quando Dweck e Mueller concepirono l’esperimento, si aspettavano che le diverse forme di elogio avrebbero avuto effetti moderatamente divergenti, ma dovettero ricredersi. “Sottolineare lo sforzo dà al bambino una variabile che riesce a controllare”, spiega Dweck. “Si vede artefice del proprio successo. Enfatizzare l’intelligenza naturale, invece, sposta l’attenzione al di fuori del suo raggio d’azione e non gli fornisce alcuna soluzione per reagire a un fallimento”.

Insomma, secondo i risultati degli esperimenti, bisogna elogiare i bambini per l’impegno e la costanza, e non per la loro intelligenza. Anche i geni devono lavorare sodo e possono riuscire nell’intento grazie alla tenacia, e non solo per l’acume di cui madre natura li ha dotati. Le recenti meta-analisi di Sisk et al. (2018) hanno suggerito che incentivare una mentalità di crescita sarebbe importante soprattutto per il rendimento scolastico degli studenti a rischio e degli studenti con basso status socio-economico.

Dunque, coloro che credono di essere “cervelloni” considerano l’intelligenza una caratteristica immutabile, a differenza dei “secchioni” che la ritengono migliorabile nel tempo. Le ricerche più recenti condotte da Dweck dimostrano che questa differenza di visioni è alla base della motivazione e degli eventuali successi di apprendimento degli allievi. I primi “tengono a tal punto a mostrarsi intelligenti che arrivano a comportarsi da stupidi, perché, pur di riuscire, rinunciano a imparare qualcosa di essenziale”.

Il segreto sta tutto nella parola “credere”. Se crediamo di poter sviluppare l’intelligenza con il passare del tempo, con un atteggiamento mentale di predisposizione alla crescita, “potrete diventare intelligenti quanto vorrete. Se, al contrario, siete convinti di essere nati geniali, in una condizione immutabile, in quella condizione rimarrete”.

Thomas Edison diceva: “II genio è per l’1% ISPIRAZIONE  e per il 99% TRASPIRAZIONE”: quando elogiate qualcuno ricordatevi di queste parole.

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