Come l’Occidente ha trasformato un ideale universale in un marchio culturale
Perché quando pensiamo alla parola democrazia immaginiamo subito l’Occidente?
E perché ogni altra forma di autogoverno, consenso o partecipazione ci sembra “meno democratica”?
Forse perché, più che un sistema politico, la democrazia è diventata una narrazione di potere:
una lente attraverso cui l’Occidente continua a guardare il mondo, … e a legittimare solo sé stesso.
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E’ una storia di appropriazione culturale ?
La democrazia è davvero un patrimonio esclusivo dell’Occidente,
oppure è diventata occidentale solo quando l’Europa moderna l’ha reinventata come prodotto dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese?
Da quel momento, la libertà di stampa, la rappresentanza parlamentare e la sovranità popolare si sono fuse in un modello identitario:
essere democratici ha cominciato a significare essere occidentali.
Ma è questa l’unica forma possibile di autogoverno?
Forse no: quella occidentale è solo una delle molte declinazioni della partecipazione umana al potere.
Non un dogma universale, ma una scelta culturale, quella che ha privilegiato l’individuo, il mercato e il voto periodico come simboli di libertà.
Come osservano Enslin e Horsthemke in uno studio pubblicato nel Cambridge Handbook of Democratic Education, la democrazia occidentale porta con sé un passato coloniale che richiede una rilettura critica.
Colonialismo e “missione civilizzatrice”
Durante l’espansione coloniale, l’Europa ha esportato la propria visione del mondo come misura universale del progresso.
La democrazia liberale è diventata una giustificazione morale dell’imperialismo:
non un dono, ma un cavallo di Troia.
Con il pretesto di “portare la civiltà”, si sono imposti valori e strutture istituzionali che hanno spesso distrutto modelli di governance comunitaria, spirituale o tribale più antichi e radicati.
Il risultato è stato un monopolio simbolico: solo ciò che rientra nei parametri occidentali può essere chiamato “democratico”.
Guerra fredda e soft power
Nel XX secolo, la contrapposizione tra Stati Uniti e URSS ha trasformato la democrazia in un marchio geopolitico, esportato e comunicato alle masse attraverso l’arma più sottile: il soft power.
Hollywood, la stampa, le università e, più tardi, internet hanno costruito l’immaginario del “mondo libero” contrapposto alle “dittature”, in una narrazione moralmente seducente ma politicamente selettiva.
Chi si schierava con l’Occidente era presentato come “democratico”,
chi ne restava fuori diventava automaticamente “autoritario”.
Eppure, fatta eccezione per i regimi tirannici o apertamente repressivi, in molte aree del mondo non occidentale, dal Sudest asiatico al Golfo Persico, l’autorità non è percepita come una minaccia ma come garanzia di equilibrio, prosperità e continuità culturale.
Avendo vissuto per otto anni tra gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi, ho potuto constatare come molti cittadini emiratini o omaniti, ad esempio, non si sentano affatto oppressi da una monarchia autoritaria, ma anzi vi riconoscano una forma di stabilità condivisa e di fiducia reciproca tra governanti e governati.
Un dato che suggerisce come la nozione di “libertà” vari profondamente da civiltà a civiltà.
Così, mentre l’Occidente universalizzava il proprio modello, molti popoli lo leggevano come una nuova grammatica del dominio, più simbolica che militare.
Etnocentrismo e bias cognitivi
Dietro questo dominio c’è anche un bias cognitivo: l’etnocentrismo.
Noi giudichiamo le culture altrui secondo i nostri criteri di libertà, ignorando che altre società perseguono l’armonia o il bene collettivo più della libertà individuale.
Un sistema confuciano, ad esempio, non è “meno democratico”:
è semplicemente fondato su un’altra idea di equilibrio e responsabilità.
Lo stesso vale per le società africane basate sulla palabre (discussione fino al consenso) o per le comunità andine che praticano il Buen Vivir, dove la democrazia si estende alla relazione con la natura.

Una parola da liberare
Oggi, con l’emergere del multipolarismo globale, assistiamo a una ridefinizione semantica:
la democrazia smette di essere un marchio occidentale e torna a essere un processo aperto.
Forse il futuro non sarà la fine della democrazia, ma la fine del suo monopolio semantico.
E questa è una buona notizia: significa che l’umanità può tornare a discutere come convivere, senza dover prima chiedere il permesso a un modello imposto.
Chiamare “democrazia” solo ciò che assomiglia a noi è un riflesso coloniale, non un atto di libertà.
La vera democrazia comincia quando impariamo a riconoscere anche quella degli altri.
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