Nel cuore della rivoluzione tecnologica, i miti si riscrivono al cinema: tra simboli, corpi e algoritmi.
C’è chi mi chiede perché, su questo blog, io scriva recensioni di film. Se lo faccio perché sono giurato dell’Accademia del Cinema Italiano – in effetti lo sono, sì – o se mi muove altro ?
La risposta è semplice: non sono un critico cinematografico, e non recensisco con l’intento di valutare la regia, la fotografia o la recitazione secondo i canoni della critica specializzata. Scrivo di cinema perché il mio campo di riflessione è l’immaginario.
Oggi, mentre ci affacciamo sull’orizzonte del XXI secolo dell’era digitale, un millennio simbolico, se non anagrafico, percepisco la stessa vibrazione. L’avvento delle tecnologie quantistiche, dell’intelligenza artificiale, del gemello digitale e della realtà aumentata chiede all’immaginario contemporaneo di generare nuove forme simboliche, nuovi miti cognitivi, nuove narrazioni sintetiche che sappiano accompagnare la mutazione in atto.
In questo contesto, l’opera Le strutture antropologiche dell’immaginario di Gilbert Durand, tra i maggiori antropologi del Novecento, che mi ha fatto conoscere il mentore Runcini, ha rappresentato per me una tappa decisiva. Mi ha fornito non solo una legittimazione epistemologica per continuare a trattare il simbolico, ma una mappa per attraversarlo con metodo, sensibilità e rigore. Questa consapevolezza mi ha portato oggi a considerare consapevolezza che oggi ritengo possibile pensare a forme di narrazione, talvolta noetica, come uno strumento potente per immaginare e condividere un futuro possibile: non una fuga dalla realtà, ma un linguaggio simbolico che sappia accompagnare l’innovazione tecnologica, aiutando la coscienza collettiva a comprendere, e non solo subire e temere, il cambiamento.

Gilbert Durand e la riabilitazione dell’immaginario
Le strutture antropologiche dell’immaginario è un’opera che apre mondi. Non perché moltiplichi informazioni, ma perché rimette in discussione le fondamenta del sapere moderno, invitandoci a guardare l’immagine non come ornamento, ma come organo cognitivo.
Durand individua due grandi regimi simbolici:
- Il regime diurno, eroico e ascensionale, che privilegia immagini di separazione, verticalità, dominio. È lo spazio dell’Io che si impone: la spada, la luce, l’altezza, la maschera.
- Il regime notturno, inclusivo e ciclico, che accoglie immagini di discesa, accoglienza, fusione: la coppa, l’acqua, l’utero, l’oscurità, l’unione.
Gilbert Durand e le radici neurobiologiche dell’immaginario
Secondo Gilbert Durand, l’immaginario non è semplice evasione o decorazione estetica, ma il risultato di un’interazione profonda tra riflessi neurofisiologici e condizionamenti culturali. Questa interazione, che definisce “tragitto antropologico”, affonda le radici nelle dominanti senso-motorie già attive nel neonato: postura eretta (dominante di posizione), nutrizione (dominante digestiva), sessualità (dominante ritmica).
Le immagini simboliche sarebbero dunque espressioni figurate di matrici corporee primarie.
Neuroestetica e neuroscienze contemporanee
Oggi, le neuroscienze confermano molte intuizioni durandiane. In particolare:
- Antonio Damasio, con la sua teoria del sé corporeo, mostra come le immagini mentali emergano da una base biologica integrata, confermando che l’immaginario è incarnato;
- Vittorio Gallese, grazie alla scoperta dei neuroni specchio, evidenzia una struttura neurale che collega percezione, azione e simulazione empatica: le immagini non sono “mentali” in senso astratto, ma attivazioni sensomotorie condivise;
- Lisa Feldman Barrett, con la sua teoria delle emozioni costruite, mostra come il cervello non reagisca agli stimoli in modo diretto, ma costruisca predittivamente categorie emotive e simboliche a partire da esperienze pregresse e contesto sociale.
Neurofenomenologia e immaginario incarnato
Anche la neurofenomenologia di Francisco Varela e Shaun Gallagher converge con Durand nell’idea che il corpo sia il luogo primario della conoscenza immaginale: non vediamo simboli, li viviamo. L’immaginario è quindi una coreografia incarnata di significati.
Durand ha anticipato, con strumenti simbolici e antropologici, ciò che oggi viene indagato da neuroscienze e filosofia della mente. La sua intuizione che il simbolo sia “un riflesso riflessivo” trova oggi nuovi riscontri empirici nei circuiti corporei dell’immaginazione.
In parole povere, potremmo dire che Durand rappresenta un ponte tra Jung e le neuroscienze. Se Jung ha colto negli archetipi psichici le strutture profonde dell’inconscio collettivo, Durand ne rintraccia le radici sensomotorie, restituendo al corpo, alla cultura e alla storia un ruolo generativo nell’emergere delle immagini simboliche. Entrambi, però, convergono nell’intuizione di un’immaginazione primordiale e fondativa, che guida l’essere umano ben prima della razionalità, e che oggi, grazie anche alle neuroscienze, possiamo finalmente comprendere come esperienza incarnata e condivisa.
Durand non si limita a elencare simboli: costruisce una morfologia delle immagini, una vera e propria grammatica dell’immaginario fondata su tensioni antropologiche profonde. Restituisce così dignità al mito e al simbolo come strumenti euristici, come mappe dell’esperienza umana davanti all’ignoto, al tempo, alla morte, al sacro.
In un’epoca in cui la razionalità positivista tendeva a considerare il simbolico come infantile o pre-logico, Durand afferma invece che la funzione simbolica è strutturante e universale. L’essere umano ha bisogno di immagini per pensare l’invisibile. Ogni cultura genera un pantheon visivo che organizza il senso, come un software simbolico dell’esistenza.
Dall’immaginario alle immagini dei media
La forza di Durand ha lasciato tracce anche nei media studies contemporanei, spesso in modo carsico. Se oggi possiamo leggere universi narrativi come ad esempio Black Mirror, Stranger Things, Matrix, Interstellar o Everything Everywhere All At Once non solo come fiction, ma come dispositivi simbolici collettivi, è anche grazie a questa lezione: i media sono i nuovi templi del mito, specchi dell’inconscio culturale.
Ogni universo narrativo pensando ad esempio alla Marvel, ai mondi espansi di DC, The Witcher, Dune, Foundation, funziona come un pantheon mediatico in cui si rideclinano archetipi antichi in forma spettacolare. L’eroe, il doppio, l’alter ego, il traditore, la catastrofe, la rigenerazione: non sono solo tropi narrativi, ma figure dell’immaginario collettivo contemporaneo, strumenti cognitivi simbolici attraverso cui la società metabolizza le proprie inquietudini.
Durand fornisce strumenti per leggere questi universi non come semplici prodotti culturali da consumare, ma come miti cognitivi contemporanei. In essi, l’immagine non decora, ma fonda. Non si limita a raccontare il mondo: lo plasma.
Se, come suggeriva Durand, l’immaginario nasce da un tragitto che attraversa corpo e cultura, allora universi come quello di Star Trek sono mappe simboliche del nostro tempo: ci raccontano ciò che siamo, ma anche ciò che potremmo diventare. E lo fanno attivando non solo la mente, ma il nostro intero essere neurocorporeo.
Il mio percorso di ricerca sull’umanesimo e la tecnologia ha preso forma a partire da una riflessione sull’immaginario, maturata anni fa sotto la guida del Prof. Romolo Runcini, uno dei più autorevoli studiosi italiani del fantastico.
Fu lui, con sguardo lucido, a indirizzarci verso uno studio dell’immaginario non come fuga dalla realtà, ma come chiave interpretativa del presente e del (possibile) futuro.
Ci mostrava come la letteratura fantastica dell’Ottocento, nata in parallelo, o forse sulla spina dorsale della rivoluzione industriale, non fosse un’evasione romantica, ma una risposta simbolica e visionaria all’irruzione della tecnica nel corpo della società moderna.
Fu allora che imparai a leggere mostri, automi, città spettrali e scienziati folli come figure anticipatrici delle paure e delle speranze legate all’impatto tecnologico. Compresi che ogni svolta epocale genera nuovi miti: non quelli arcaici, ma travestiti da finzione, da intrattenimento, da visione artistica.
Da allora, la mia attitudine non è più stata quella di un semplice spettatore,osservatore, ma quella di chi cerca di riconoscere le strutture profonde che precedono il cambiamento, lo accompagnano, lo giustificano simbolicamente.
Nell’immaginario ho trovato uno strumento non solo critico, ma spesso anche predittivo: una lente per intercettare le tensioni nascoste che precedono ogni mutazione storica, sociale o tecnologica.
Per questo, parlare oggi di narrazioni, di simboli e di strutture dell’immaginario non è un esercizio estetico: è una forma di strategia culturale. Serve a comprendere come l’innovazione si annunci nei sogni e negli incubi collettivi molto prima di arrivare sul mercato o nelle politiche pubbliche.
Ed è anche per questo che ho scelto di recensire questo libro.
Non soltanto perché offre spunti lucidi sull’immaginario contemporaneo, ma perché mi ha riportato, in filigrana, alle radici del mio stesso percorso.
Alla scoperta, fatta allora, che leggere un film non significa valutarlo: significa decifrarne il codice simbolico, intercettarne le tensioni invisibili, cogliere ciò che il tempo presente proietta nel linguaggio del racconto.
Ho voluto scrivere di questo testo di Durand anche nel ricordo del Prof. Runcini, perché è stato lui a insegnarmi che l’immaginario non è una fuga, ma una soglia.
Uno spazio di passaggio, dove i miti antichi si trasformano in visioni del futuro, …e dove il simbolo, una volta rivelato, non si limita a rappresentare: trasmette.
Il futuro non arriva all’improvviso: si annuncia nei simboli, nei racconti, nelle immagini che ci scorrono davanti ogni giorno. Basta sforzarsi di saperli leggere.
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