strategia e significato dell’ambiguità deliberata
Quando dire tutto significa perdere tutto, il silenzio diventa strategia. Ma attenzione: non è omertà. È equilibrio.
“L’ambiguità deliberata è uno strumento comunicativo strategico che consente di operare in contesti ad alta tensione negoziale senza compromettere il margine d’azione. In situazioni dove una presa di posizione nitida bloccherebbe ogni possibilità di mediazione, l’uso mirato di un linguaggio aperto può facilitare accordi solidi e lasciare tempo al consolidamento di consenso”
Nel mio articolo V.U.C.A, parlo di ambiguità quale uno degli elementi dominanti e sintomatici dei tempi correnti
Ambiguità applicata in certi contesti, non è un difetto di chiarezza, né una mancanza di coraggio. È una postura deliberata, pensata, costruita. L’ambiguità, in certi scenari, è ciò che permette alla parola di non diventare un’esplosione. È il confine mobile tra dichiarare e nascondere, tra affermare e suggerire, tra il dire troppo e il dire abbastanza.
Nel tempo della trasparenza esasperata, dove ogni affermazione è immediatamente tracciabile, archiviata, isolata e rilanciata, dire tutto può diventare una forma di autodistruzione.
Eppure, chi comunica professionalmente, soprattutto in contesti politici, militari, negoziali, o di crisi, sa che ci sono momenti in cui la chiarezza assoluta uccide ogni margine di evoluzione. Le parole non sono solo strumenti per spiegare il reale. Sono anche dispositivi per costruire futuro, e il futuro, per definizione, è indeterminato.
Prendiamo uno dei casi più emblematici: Israele e l’arma nucleare. Da decenni, Israele non conferma né smentisce di possedere testate atomiche.
Questa posizione, nota come nuclear opacity, rappresenta la forma più sofisticata di dissuasione indiretta. Un silenzio strategico, calibrato e persistente, che trasmette un messaggio molto più nitido di qualunque dichiarazione ufficiale: “Forse ce l’ho. E tu non puoi permetterti di scoprire se è vero.”
In quel forse si gioca tutta la posta della sopravvivenza strategica. La certezza vincola. Il dubbio, invece, mantiene aperto lo spazio della deterrenza.
Come evidenzia Raphael BenLevi (The Nonproliferation Review, 2022), l’ambiguità israeliana è diventata un’architettura deliberata, sostenuta da fattori esterni precari: l’assenza di potenze nucleari nella regione, il sostegno bipartisan degli Stati Uniti e la mancanza di una pace stabile. Ma se uno solo di questi pilastri dovesse cedere, ad esempio, se l’Iran si dotasse dell’arma atomica, allora quel “forse” potrebbe non bastare più. E la forza silenziosa dell’ambiguità si trasformerebbe in un vicolo cieco.
Lo stesso vale per il triangolo Stati Uniti–Taiwan–Cina. La cosiddetta strategic ambiguity adottata da Washington non è solo un espediente retorico, ma una vera e propria postura strategica che consente di tenere insieme due posizioni solo in apparenza inconciliabili: da un lato, il riconoscimento formale della “One China Policy” pretesa da Pechino; dall’altro, la disponibilità a intervenire militarmente in difesa di Taipei.
Ambiguità? Sì, ma funzionale. Perché non solo dissuade la Cina dall’intraprendere un’azione diretta, ma frena anche eventuali slanci unilaterali da parte di Taiwan verso una dichiarazione formale d’indipendenza.
Come sottolinea Chang-Liao Fang in una analisi pubblicata su The Washington Quarterly, è proprio questo “spazio di ambiguità” a mantenere aperto il margine per la deterrenza e il dialogo: la chiarezza assoluta, al contrario, irrigidirebbe le posizioni, spingendo ciascun attore verso mosse irreversibili.
È un equilibrio instabile, certo. Ma è anche l’unico, finora, che ha evitato l’escalation diretta.
In un mondo che invoca chiarezza a ogni costo, parlare di ambiguità come risorsa strategica sembra quasi un’eresia.
Eppure, nella storia della diplomazia e della deterrenza, è spesso ciò che non viene detto, o ciò che resta volutamente impreciso, a determinare gli equilibri più delicati.
“Ambiguity is a fact, not a policy.” Così scrive Joshua Rovner, professore di geopolitica e sicurezza globale, in un articolo illuminante pubblicato su War on the Rocks.
Con una lucidità disarmante, Rovner ribalta il paradigma secondo cui l’ambiguità sia sempre una scelta tattica. In realtà, dice, l’ambiguità è spesso una condizione strutturale, un effetto inevitabile della complessità strategica e della natura umana delle relazioni internazionali.
In altre parole: non è sempre vero che chi tace, lo fa per scelta.
Spesso, semplicemente, nessuno ha la risposta. E anche quando la si ha, dichiararla potrebbe significare spingere l’altro oltre una soglia critica.
L’ambiguità, dunque, non è solo un velo calato su una decisione esistente, ma l’ammissione di una decisione non ancora presa: o forse non prendibile finché l’evento non si manifesta.
Se l’ambiguità deliberata può essere una forma sofisticata di deterrenza, un’ombra che frena più di una luce abbagliante, l’ambiguità di fatto: quella generata da incertezza, assenza di coordinamento, vuoti politici o retorica confusa, può diventare fonte di pericolo. Specie se viene letta dagli attori in campo come incoerenza o mancanza di volontà.
Il punto, allora, non è se l’ambiguità sia buona o cattiva, ma se sia gestita o subita. La prima può salvare la pace. La seconda può accelerare lo scontro.
C’è un altro elemento che Rovner mette in evidenza, e che riguarda gli alleati. L’ambiguità nelle promesse di difesa rischia di generare illusioni: gli Stati protetti potrebbero sovrastimare il livello di garanzia reale, interpretando il silenzio come un sì. È il cosiddetto azzardo morale strategico: credere che qualcun altro pagherà il prezzo di una tua scelta azzardata.
Allo stesso tempo, passare a una strategic clarity non è privo di costi. Un impegno esplicito a difendere Taiwan, ad esempio, potrebbe radicalizzare le posizioni, incentivare dichiarazioni d’indipendenza da parte di Taipei e provocare reazioni dure da Pechino. La chiarezza, insomma, non è sempre sinonimo di stabilità.
Come nota lo stesso Rovner: “clarity might provoke more than it prevents.”
La realtà è che la diplomazia vive di grigi, non di bianco e nero. Nelle zone d’ombra si costruiscono le tregue, i compromessi, le pause necessarie per lasciare spazio all’evoluzione delle condizioni. È lì, in quella porzione sospesa di linguaggio, che si aprono spiragli di soluzione. L’ambiguità, se ben dosata, non è vigliaccheria. È uno strumento sofisticato per tenere aperti canali, evitare escalation, o semplicemente guadagnare tempo. Non a caso, Henry Kissinger parlava di “ambiguità costruttiva” come chiave per mantenere vive trattative altrimenti condannate al fallimento.
La Turchia come esempio di ambiguità costruttiva
Nel quadro delle relazioni internazionali, la Turchia rappresenta un esempio paradigmatico di come l’ambiguità possa diventare una strategia strutturale per mantenere margini di manovra tra più alleanze e interessi geopolitici divergenti.
Il documento spiega come la posizione della Turchia tra Est e Ovest, culturalmente, geograficamente e politicamente, abbia favorito lo sviluppo di una politica estera ambigua ma deliberata: da un lato, membro della NATO, dall’altro partner problematico dell’Unione Europea e interlocutore autonomo con Russia, Iran e Medio Oriente.
L’equilibrista geopolitico
In bilico tra Est e Ovest, tra democrazia e autoritarismo, tra adesione all’Occidente e dialogo con Mosca, la Turchia rappresenta uno dei casi più emblematici di ambiguità deliberata applicata alla geopolitica.
- Ambiguità tra NATO e Russia
La Turchia ha saputo giocare su più fronti: ha acquistato i sistemi missilistici russi S-400, pur restando formalmente all’interno dell’alleanza atlantica. Questo ha creato frizioni con gli Stati Uniti, ma ha anche rafforzato l’autonomia strategica di Ankara. In questo, l’ambiguità non è frutto di indecisione, ma di una precisa volontà di moltiplicare le opzioni disponibili, ritardare prese di posizione definitive, evitare vincoli eccessivi, e mantenere una posizione negoziale favorevole. - Ambiguità con l’Unione Europea
Anche sul fronte europeo, la Turchia ha mantenuto per anni un doppio registro: aspirante candidata all’ingresso nell’UE da un lato, e Stato autoritario ostile alle pressioni sui diritti umani dall’altro. Questa posizione ambivalente ha permesso ad Ankara di usufruire dei benefici economici e politici del dialogo europeo, senza mai accettare integralmente le condizioni imposte da Bruxelles.
La lezione turca
L’ambiguità non è mancanza di coerenza. È la scelta, spesso necessaria, di restare mobili in un mondo instabile.
Dove la chiarezza può chiudere, l’ambiguità può aprire.
Dove un vincolo può costringere, il dubbio può negoziare.
Per la Turchia, l’ambiguità è un’arte diplomatica.
Per chi osserva, è un monito: non sempre la trasparenza è la strada della pace.
Dunque, l’ambiguità deliberata non è solo una strategia geopolitica. È anche una forma elevata di comunicazione intersoggettiva. In ambito negoziale o educativo, l’ambiguità ben calibrata può evitare il conflitto, aggirare la rigidità, lasciare spazio all’ascolto. Come educatore socio-pedagogico, so quanto sia difficile, a volte, dire una verità senza traumatizzare, affermare un principio senza bloccare il dialogo, porre un limite senza umiliare. L’ambiguità qui non è menzogna: è cura del processo comunicativo.
Ma oggi, in un mondo dove ogni parola è registrata, decostruita, rilanciata, l’ambiguità costa. Nell’epoca della trasparenza algoritmica, dove l’opinione pubblica pretende risposte nette e i social media sbranano ogni esitazione, tacere o restare sfumati può sembrare sospetto. O addirittura, colpevole.
Eppure, c’è un altro fronte che merita attenzione: quello tecnologico.
Mentre le diplomazie oscillano tra chiarezza e ambiguità, le tecnologie emergenti -come la comunicazione quantistica o l’intelligenza artificiale nei processi decisionali- stanno riformulando il modo stesso in cui le intenzioni vengono codificate e interpretate. Un domani in cui ogni messaggio sarà matematicamente tracciabile, privo di ambivalenze e protetto, o sprotetto, da crittografia, o decrittografia, quantistica, sarà un mondo più sicuro… o più fragile?
Se la deterrenza nasce anche dalla possibilità di ritirarsi con onore o di mantenere ambiguità costruttive, un mondo dove tutto è chiaro potrebbe diventare un mondo dove nulla è negoziabile.
Il punto, allora, è questo: non si tratta di scegliere tra chiarezza e ambiguità, ma di imparare quando e come usarle.
Una parola precisa può stabilire un principio. Una parola sfumata può evitare una guerra. Saper leggere i contesti, dosare i messaggi, comprendere i silenzi… è questo il vero mestiere del comunicatore, del leader, del negoziatore. E forse anche del cittadino.
Perché anche fuori dai palazzi del potere, viviamo ogni giorno nella tensione tra dire e non dire, tra parlare chiaro e lasciare che il tempo dia forma a ciò che ancora non è pronto a essere pronunciato.
L’ambiguità, in fondo, è la lingua dei passaggi. Dei ponti. Dei cambiamenti. Non sempre è un difetto. A volte è l’unica forma possibile di responsabilità.
In sintesi, l’ambiguità non è sempre un difetto comunicativo. In alcuni contesti, negoziati, crisi, deterrenza, diventa presidio di equilibrio.
Non dice tutto, ma impedisce tutto, con una frase da ricordare:
“La chiarezza vincola, il dubbio dissuade. E in quel forse, spesso, si tiene la pace.”
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