Negli episodi precedenti l’acqua era già uscita dal suo ruolo rassicurante di sostanza “semplice”: l’abbiamo incontrata come sistema complesso, fatta di domini ordinati e disordinati, e come protagonista silenziosa della vita dentro il nostro corpo.
In questo episodio l’acqua cambia ancora scena: entra nel territorio dell’energia.
Il fisico napoletano Roberto Germano, allievo di Del Giudice e Preparata, racconta come studiando l’acqua nel quadro dell’elettrodinamica quantistica si sia imbattuto in qualcosa che, nei manuali scolastici, è praticamente vietato: l’estrazione di corrente elettrica da acqua bidistillata, usando due elettrodi di platino identici e il solo calore ambientale, mediato dall’ossigeno disciolto.
Lo chiamano effetto ossidroelettrico: una specie di “cella fotovoltaica” dove il ruolo del Sole è preso dalla radiazione infrarossa ambientale e il ruolo del semiconduttore… da minuscole strutture di acqua attivata a contatto con polimeri idrofili.
Non è free energy, non è magia. È un fenomeno delicato, ancora in fase di sviluppo, che produce piccole potenze ma apre una domanda enorme: quanto è profonda la relazione fra acqua, luce e vita, se persino da una cella di acqua quasi pura riusciamo a tirare fuori elettroni
In questo episodio non cerco risposte definitive. Provo solo a seguire il filo: dalle intuizioni teoriche di Del Giudice e Preparata, agli esperimenti chimico-fisici che portano a parlare di “acqua secca” e “xerosidrile”, fino alle prime celle che trasformano l’infrarosso ambientale in corrente continua.
Da una domanda da studente al filone di ricerca
Nel documentario L’acqua e le frequenze della vita la voce narrante introduce Germano così: un fisico della materia che, dopo la laurea e un’esperienza di ricerca, ha deciso di dedicarsi al trasferimento tecnologico. Nel 1997 fonda uno spin-off, Promete, legato all’Istituto Nazionale per la Fisica della Materia.
In realtà il suo percorso parte da una frustrazione da studente: nei corsi di fisica classica la materia condensata viene descritta come un gas un po’ più denso, un insieme caotico di molecole che si urtano, solo più vicine.
Lui sente che manca qualcosa:
perché la materia si condensa?
come nascono strutture ordinate da un caos di particelle che si agitano?
Quando incontra i lavori teorici di Giuliano Preparata, Emilio Del Giudice e Giuseppe Vitiello, trova un linguaggio diverso: l’idea che, sotto certe condizioni di temperatura e densità, l’acqua non passi semplicemente da gas a liquido, ma si organizzi spontaneamente in un liquido bifasico, dove coesistono una componente coerente e una incoerente, con le molecole che oscillano fra due livelli energetici.
Il punto chiave è che questo secondo livello energetico è vicino al livello di ionizzazione della molecola d’acqua: significa che una parte degli elettroni è più “mobile”, quasi pronta a diventare carica libera. Nel linguaggio di Del Giudice, l’acqua si comporta come un mezzo capace di accumulare e rilasciare energia di bassa qualità, organizzandola in modo coerente.
L’acqua che cambia senza “aggiunte”, l’incontro con la chimica
Parallelamente, Germano racconta l’incontro con un chimico-fisico dell’Università di Napoli (Vittorio Elia) che faceva qualcosa di apparentemente banale: preparava soluzioni di acqua bidistillata a contatto con polimeri idrofili o materiali come cellophane e cotone idrofilo, poi misurava nel tempo parametri termodinamici e chimico-fisici.
I risultati erano spiazzanti: quelle acque “perturbate” mostravano variazioni sistematiche di conducibilità, calore specifico, comportamento termico, come se avessero in soluzione dei soluti… ma analisi chimiche accurate confermavano che non c’era nessuna nuova sostanza aggiunta.
L’unica spiegazione plausibile, sulla scia della QED dell’acqua, è che il contatto ripetuto con certe superfici idrofile generi aggregati supramolecolari di acqua, strutture stabili che si comportano come se fossero quasi‐solidi all’interno del liquido.
Quando questi aggregati vengono essiccati, i ricercatori riescono a isolarne grandi quantità solide, stabili fino a temperature altissime: li battezzano Xerosidrile (o Xerosydryle), “acqua secca”.
Qui l’immagine si capovolge: nel laboratorio non è più l’acqua a sciogliere qualcos’altro, ma l’acqua stessa che si organizza in una nuova fase, diventando “materia” quasi autonoma, con proprietà diverse dall’acqua liquida ordinaria.
Pollack, le superfici idrofile e l’acqua che si carica
Nel racconto di Germano entra poi un’altra tessera: gli esperimenti di Gerald Pollack a Seattle, che mostrano come vicino a certe superfici idrofile si formi una “zona di esclusione” (EZ water), dove le particelle vengono respinte e la composizione dell’acqua sembra diversa, con le cariche che si separano su distanze micrometriche.
Queste zone, alimentate dalla luce, in particolare dalla componente infrarossa, si comportano in parte come piccoli serbatoi di energia: l’acqua sembra raccogliere l’energia assorbita dalla radiazione e riorganizzarla in modo da creare potenziali elettrici relativamente stabili.
Pollack ne parla come di una sorta di “batteria liquida”.
Quando Germano mette insieme questa immagine con la visione teorica di Del Giudice, Preparata e Vitiello sui domini coerenti e sugli elettroni quasi liberi, e con le anomalie chimico-fisiche osservate da Elia e Napoli nelle acque trattate con polimeri idrofili, si rende conto che non si tratta di episodi isolati, ma di frammenti di uno stesso mosaico. Le zone di esclusione di Pollack, le “acque strane” dei chimici napoletani e i domini coerenti della QED iniziano a risuonare tra loro: raccontano, ciascuna a modo suo, la stessa storia di un’acqua che, a contatto con certe superfici e nutrita dalla radiazione, è capace non solo di stare lì come semplice solvente, ma di accumulare, organizzare e restituire energia.
Visto che negli episodi precedenti ho continuato a nominare la QED senza spiegarla davvero, qui è il momento di dirlo in modo semplice, a pane e peperoni.
QED è la sigla di elettrodinamica quantistica. È la teoria che la fisica usa per descrivere come la luce e le particelle cariche (per esempio gli elettroni) interagiscono tra loro. Invece di immaginare fotoni ed elettroni come palline che si urtano, la QED li tratta come campi che si eccitano, si scambiano “pacchetti” di energia e si influenzano di continuo.
L’idea di base, brutalmente semplificata, è questa: esiste un campo elettromagnetico quantizzato che riempie lo spazio, e le particelle cariche “parlano” tra loro scambiandosi fotoni. È grazie a questa teoria che oggi sappiamo calcolare con una precisione impressionante cose come il momento magnetico dell’elettrone o il comportamento della luce negli atomi. È una delle colonne portanti della fisica moderna, non un vezzo esoterico.
Che cosa c’entra tutto questo con l’acqua?
Quando parliamo della “QED dell’acqua”, stiamo dicendo che alcuni fisici – come Preparata, Del Giudice e Vitiello – hanno provato a usare proprio questo linguaggio, nato per descrivere luce e particelle elementari, per raccontare anche il comportamento collettivo di tante molecole d’acqua tutte insieme. In questa visione, l’acqua non è solo un mucchio di molecole che si agitano a caso, ma un sistema in cui il campo elettromagnetico e la materia possono entrare in una sorta di danza coordinata.
Se la temperatura e la densità sono quelle giuste, una parte delle molecole può mettersi “a tempo” con il campo elettromagnetico e formare quelli che loro chiamano domini coerenti: regioni in cui le molecole oscillano all’unisono, condividendo fase ed energia, mentre il resto dell’acqua rimane in una forma più disordinata. Da qui nasce l’idea dell’acqua “a due componenti”: una più coerente e una più caotica.
Quello che stiamo usando in questi episodi, quindi, non è una QED qualunque, ma una sua applicazione specifica all’acqua liquida, ancora discussa e non del tutto digerita dalla comunità scientifica. Per il nostro racconto basta questo: QED, qui, non è uno slogan per fare scena, ma il tentativo di usare una delle teorie più solide della fisica per capire perché l’acqua – nei viventi, vicino alle superfici, nelle celle di Germano – si comporti in modo così ostinatamente “strano”.
Una corrente che non dovrebbe esistere, ma l’effetto ossidroelettrico …
Da questo mosaico nasce l’esperimento che renderà Germano noto: l’effetto ossidroelettrico.
L’idea è quasi scandalosamente semplice. Si prende acqua bidistillata, si introduce un polimero idrofilo che crea interfacce simili a quelle studiate da Pollack, si immergono due elettrodi di platino identici in una piccola cella. Secondo la fisica classica, con due elettrodi uguali in acqua pura non dovrebbe scorrere alcuna corrente elettrica: non c’è differenza di potenziale, non ci sono ioni in quantità sufficiente per condurre. In teoria, tutto dovrebbe restare muto.
Eppure, misurando con strumenti molto sensibili, gli sperimentatori osservano una corrente continua, stabile, anche se di piccola intensità, che varia con la radiazione infrarossa ambientale: di notte diminuisce, sotto una lampada IR aumenta, quando la lampada viene spenta cala lentamente. Qualcosa, dentro quell’acqua apparentemente “vuota”, sta organizzando l’energia diffusa dell’ambiente in una forma utilizzabile.
In certe condizioni, soprattutto quando entra in contatto con superfici idrofile e viene nutrita dalla radiazione infrarossa ambientale, questa acqua diventa a tutti gli effetti acqua elettrica: si carica, separa le cariche, genera una piccola corrente continua proprio dove, secondo i manuali, non dovrebbe scorrere nulla.
Non è una magia, né una promessa di energia infinita, ma il segno che l’acqua può comportarsi quasi come un dispositivo elettronico naturale, capace di organizzare l’energia diffusa dell’ambiente in qualcosa di utilizzabile.
Ed è proprio in questo scarto tra la normalità di una goccia e la sua imprevista capacità di produrre corrente che, ancora una volta, la nostra percezione viene messa in crisi.
In pratica, il sistema si comporta come una specie di cella fotovoltaica non convenzionale: il ruolo del Sole è giocato dall’infrarosso diffuso nell’ambiente, quello del semiconduttore dall’acqua strutturata a contatto con il polimero e con l’ossigeno disciolto; la corrente estratta è piccola ma continua, e può essere accumulata come se l’acqua fosse una micro–batteria sempre in carica.
È talmente fuori dal quadro scolastico che Germano e i suoi colleghi decidono di brevettare il fenomeno prima ancora di pubblicarlo, temendo di non essere presi sul serio. Da qui il nome: effetto ossidroelettrico, perché coinvolge l’acqua e l’ossigeno nella generazione di corrente.
Dalla fisica all’ingegneria si rivelano piccole potenze e grandi domande
Nel documentario Germano spiega che, a partire da questo effetto, lui e i suoi collaboratori hanno iniziato a progettare schede elettroniche e piccole celle sperimentali, fino ad arrivare a prototipi capaci di alimentare dispositivi a bassissimo consumo in modo continuo, sfruttando soltanto l’infrarosso ambientale. Non stiamo parlando di centrali elettriche o di miracoli energetici: le potenze in gioco sono minuscole, interessanti per sensori, sistemi autonomi, micro-dispositivi che devono funzionare a lungo senza batterie tradizionali.
La parte davvero importante, però, non è la prestazione in sé, ma il cambio di prospettiva che suggerisce. In queste condizioni l’acqua inizia a comportarsi come una sorta di sorgente di “elettronica morbida”, un mezzo capace di convertire in modo continuo l’energia termica diffusa dell’ambiente in elettricità ordinata. Questo comportamento, che nel linguaggio della fisica classica appare quasi paradossale, diventa più naturale se si accetta il quadro dei domini coerenti della QED: regioni d’acqua che raccolgono e organizzano energia di bassa qualità, rendendo possibile l’estrazione di una piccola quantità di lavoro utile.
In pratica, l’esperimento ossidroelettrico non è un trucco da laboratorio, ma un banco di prova di una fisica dell’acqua che non è ancora diventata mainstream e che proprio per questo viene interrogata, criticata, raffinata. È uno di quei casi in cui un effetto minuscolo, se confermato e compreso a fondo, finisce per parlare a voce molto più alta delle sue dimensioni.
Tra rivoluzione energetica e rischio di mito
È facile, a questo punto, farsi trascinare dall’entusiasmo: giornali e blog parlano di “energia illimitata dall’acqua”, di “rivoluzione italiana”, di celle che funzionano “anche al buio”.
Il vocabolario dell’eccezionale arriva sempre prima dei dati, e l’effetto ossidroelettrico rischia subito di essere percepito come l’ennesimo contenitore di promesse assolute.
Qui, però, torna utile una riflessione da Decimo Uomo.
Da un lato bisogna riconoscere che non siamo nel territorio delle chiacchiere da bar: l’effetto ossidroelettrico è oggetto di brevetti, di progetti industriali, di articoli su riviste peer reviewed che studiano l’“acqua secca” e le nuove proprietà chimico-fisiche di queste soluzioni.
Dall’altro, proprio per questo, è necessario ricordare che siamo ancora dentro una fase di ricerca e sviluppo: servono misure indipendenti, conferme, confronti con altri gruppi. Parlare di “energia infinita” in questa fase non è solo ingenuo, è quasi un modo sicuro per bruciare la credibilità di qualunque scoperta reale.
Il valore di questa storia, per il nostro discorso su acqua e reale, non è promettere miracoli tecnologici, ma mostrarci un pattern che inizia a ripetersi.
Quindi arriva una teoria di frontiera: in questo caso la QED dell’acqua e l’idea dei domini coerenti.
Poi compaiono esperimenti che con il vocabolario classico sembrano “impossibili”.
A quel punto interviene l’ingegneria, che prova a tradurre l’effetto in un oggetto concreto, una cella, un dispositivo, qualcosa che si possa usare.
E intanto, sopra tutto questo, l’immaginario corre, decretando troppo in fretta l’alba di una nuova era.
In mezzo a questi quattro movimenti resta il lavoro più invisibile: quello di chi misura, rifà, corregge, pubblica, viene criticato, risponde, riprova.
È lì, in questa routine che non fa notizia, che si gioca davvero il confine tra fisica, tecnologia e mito.cnologia e mito.
L’acqua tra vita, memoria ed energia
Dopo aver seguito De Ninno, Vitiello e ora Germano, l’acqua appare sempre meno come un semplice sfondo neutro.
Non è più solo il liquido trasparente che riempie bicchieri e tubature, ma è una struttura che si organizza in domini, aggregati, fasi inaspettate;
è un medium vivente che dentro il corpo costruisce reti di correlazioni sottili, forse coinvolte anche nel modo in cui rispondiamo a farmaci e stimoli;
e, allo stesso tempo, è un ponte energetico che, a contatto con superfici e radiazione infrarossa, può raccogliere e restituire energia sotto forma di corrente misurabile.
La tentazione di farne subito una “Matrice della vita” con la M maiuscola è forte. Ma se prendiamo sul serio l’alleanza fra scienza e noetica, l’acqua non ha bisogno di essere divinizzata: basta riconoscerla per quello che è, un soggetto fisico straordinariamente sensibile in cui si intrecciano informazione, organizzazione ed energia.
Forse è proprio questa sensibilità estrema che la rende, allo stesso tempo, oggetto di ricerca rigorosa e schermo su cui proiettiamo desideri, paure, speranze di guarigione o di salvezza energetica.
Alla fine di questo episodio, l’acqua resta quello che è sempre stata: gocce, molecole, legami che si orientano. Ma ora sappiamo che, in certe condizioni, può anche comportarsi come un piccolo dispositivo elettronico naturale, una goccia capace di dialogare con la luce e di trasformarla in corrente.
L’ispirazione per questa nuova riflessione mi è arrivata ascoltando il racconto del fisico della materia Roberto Germano nel documentario “L’acqua e le frequenze della vita”, trasmesso su Prime Video.
Questo articolo fa parte della serie “L’acqua, la memoria e il reale”: Episodio 0 – Le sorgenti dimenticate di Santa Lucia ; Episodio I – L’acqua che non sappiamo ancora spiegare ; Episodio II – L’acqua vivente ; Episodio III – L’acqua elettrica: quando una goccia diventa sorgente di energia.
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