Lingua aliena e pensiero quantistico

Mi capita spesso che non sono solo i saggi di filosofia o gli articoli accademici a darmi le intuizioni più forti, ma anche i film e le serie con un loro certo cultural placement.
La fantascienza, in particolare, riesce a trasformarsi in un laboratorio di idee: Arrival, Blade Runner, Matrix o più recentemente Invasion mettono in scena domande che vanno oltre lo schermo, toccando la dimensione noetica, quella che riguarda il pensiero e la coscienza.

E allora mi sono chiesto: perché, in Invasion, è proprio una giapponese a capire come ragionano gli alieni? E cosa ci dice questo sul modo in cui lingue e culture modellano i nostri pensieri?

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Lingua aliena e pensiero quantistico

Da Arrival a Invasion, la fantascienza ci ha suggerito che la lingua non è mai soltanto un mezzo per comunicare: potrebbe essere un codice cognitivo. Imparare un nuovo linguaggio significherebbe, allora, acquisire un nuovo modo di pensare.

Louise Banks, in Arrival, scopre che il linguaggio circolare degli Eptapodi la porta a percepire il tempo non più come una linea, ma come una totalità simultanea. Mitsuki Yamato, in Invasion, è l’unica capace di intuire il pensiero alieno. Non perché “più intelligente”, ma perché la sua formazione culturale e linguistica, il giapponese, la allena a convivere con l’ambiguità, il non detto, i significati stratificati.

Lingue alfabetiche vs lingue ideogrammatiche

  • Le lingue occidentali, alfabetiche, scompongono il mondo in unità minime (lettere), poi ricombinate secondo regole lineari. È un pensiero “sequenziale”, che richiama la logica dei computer classici: 0 o 1, passo dopo passo.
  • Le lingue orientali, come il cinese e il giapponese, operano con caratteri che non rappresentano soltanto suoni ma concetti. Ogni ideogramma è un nodo semantico, una mappa concettuale compressa che apre possibilità interpretative multiple.
    È un pensiero “olistico”, che gestisce parallelismi e contesto.

In altre parole: un alfabeto ragiona per sequenze, un ideogramma per reti di senso.

Il ponte con la computazione quantistica
La computazione quantistica rompe il paradigma classico:

  • non più bit (0/1), ma qubit (0 e 1 in sovrapposizione),
  • non più logica deterministica, ma calcolo probabilistico,
  • non più sequenza lineare, ma entanglement di stati interconnessi.

È, a tutti gli effetti, una lingua aliena del nostro tempo.
Per programmare un algoritmo quantistico non basterebbe trascrivere in codice classico


Linguistica, cultura cognitiva e computazione quantistica

Potremmo chiederci se il modo in cui una cultura scrive e pensa non influenzi anche la capacità di comprendere nuovi paradigmi tecnologici.
La logica occidentale, fondata sull’alfabeto, appare come una linea: A → B → C. Ogni concetto viene scomposto in unità minime, lettere da ricombinare. È una modalità di pensiero sequenziale, vicina alla computazione tradizionale: bit, 0 o 1, istruzioni passo dopo passo.
La logica orientale, basata sugli ideogrammi, non spezzetta i concetti in lettere, ma li rappresenta come blocchi densi di significato. Un kanji o un hanzi è al tempo stesso suono, immagine, storia, concetto. Questo modo di scrivere abitua a convivere con la polisemia, a leggere il contesto, ad accettare il parallelismo interpretativo. Potrebbe ricordare, almeno in parte, il pensiero richiesto dalla computazione quantistica, dove gli stati non sono più soltanto 0 o 1, ma anche sovrapposizioni di 0 e 1 insieme, con diverse probabilità.
Programmare un algoritmo quantistico significherebbe, dunque, ragionare non per sequenze determinate, ma per spazi di possibilità; gestire entanglement, cioè relazioni non locali tra variabili; accettare l’ambiguità come parte integrante del calcolo, non come errore.
E allora ci si potrebbe chiedere: un madrelingua giapponese o cinese, cresciuto in un sistema di scrittura dove ogni carattere porta più strati di significato, dove il contesto è indispensabile e l’omissione è normale, non avrebbe forse una predisposizione cognitiva più naturale a questo tipo di ragionamento non lineare?
Naturalmente, ciò non significherebbe che gli orientali siano “migliori” programmatori quantistici. Piuttosto, il bagaglio culturale e linguistico potrebbe influenzare come ci si approccia a concetti come parallelismo, incertezza e logiche non classiche. L’occidentale, formato dalla tradizione alfabetica e cartesiana, potrebbe dover “disimparare” qualcosa per adattarsi, mentre altri potrebbero avere un accesso più diretto a questa nuova lingua del futuro.


L’intuizione narrativa

Ecco perché, a livello simbolico, non sorprenderebbe che in Invasion la figura-ponte sia una giapponese. Lo sceneggiatore sembra dirci: “per comprendere l’alieno bisogna avere una mente abituata all’alterità.”

Un giapponese (o un cinese), cresciuto dentro un sistema linguistico che privilegia polisemia, contesto e stratificazione di significati, potrebbe apparire naturalmente predisposto ad avvicinarsi a un pensiero che ricorda quello quantistico.

Il “pensiero altro” degli alieni

Gli alieni in Invasion non ragionano come gli umani: il loro linguaggio e la loro logica non sono lineari, ma “altri”.
Per raccontarlo, la sceneggiatura aveva bisogno di un personaggio che incarnasse un modo di pensare diverso da quello occidentale.

La giapponese come ponte culturale

  • Il giapponese vive quotidianamente con una lingua fatta di strati multipli di significato (kanji + kana, livelli di cortesia, ambiguità implicite).
  • È più “allenato” a tollerare il non detto e a leggere il senso dal contesto.
  • Questo lo rende un simbolo perfetto di chi può “tradurre” un pensiero non umano.

Archetipo narrativo

In molta fantascienza, l’Oriente è usato come “porta verso l’alterità”:

  • in Blade Runner, il paesaggio urbano futurista è intriso di estetica giapponese;
  • in Matrix, il dojo e la scrittura giapponese/cinese diventano metafora di realtà alternative;
  • in Arrival, il linguaggio alieno richiama la relatività linguistica: imparare un nuovo linguaggio cambia la mente.

Lo sceneggiatore e la scelta di Yamato

Far sì che sia una giapponese, e non  ad esempio un americano o un tedesco,  ad intuire il pensiero alieno:

  • sottolinea la distanza dalla logica cartesiana occidentale,
  • crea coerenza con l’idea che per comprendere l’Altro radicale serve un approccio già abituato alla polifonia del significato,
  • amplifica il mito culturale secondo cui “i giapponesi capiscono ciò che noi non vediamo”.

Lingua, scrittura e stili cognitivi

  • Relatività linguistica (Ipotesi Sapir-Whorf)
    Le strutture linguistiche non determinano, ma possono influenzare i modi di pensare. La lingua che usiamo condiziona il modo in cui percepiamo spazio, tempo e relazioni (Whorf, 1956; Lucy, 1997).
  • Script relativity
    Anche il sistema di scrittura incide sui processi cognitivi. Studi comparativi mostrano che alfabeti e ideogrammi stimolano aree cerebrali diverse e favoriscono strategie di elaborazione differenti (Olson & Torrance, Writing and Cognition, 2009).
  • Stili cognitivi analitico vs olistico
    Richard E. Nisbett (The Geography of Thought, 2003) evidenzia come l’Occidente tenda a un pensiero analitico (isolamento degli oggetti, sequenze logiche), mentre l’Asia Orientale privilegi un pensiero olistico (contesto, relazioni, armonia).
  • Neuroscienze della lettura
    La lettura di caratteri cinesi/giapponesi attiva reti cerebrali più distribuite rispetto alla lettura alfabetica, coinvolgendo entrambi gli emisferi (Tan et al., PNAS, 2005). Questo suggerisce una maggiore integrazione tra processi visivi e semantici.
  • Filosofia comparata
    François Jullien (2005) ha mostrato come il pensiero cinese tradizionale privilegi processi e trasformazioni piuttosto che categorie fisse, un approccio che in chiave metaforica può ricordare logiche “non classiche”.

Speculazione finale

Se la programmazione informatica classica è figlia dell’alfabeto, la computazione quantistica potrebbe essere considerata figlia degli ideogrammi?

  • entrambi non si leggono come sequenze, ma come configurazioni dense di senso,
  • entrambi esigono un pensiero non lineare, in cui le ambiguità non sono errori ma risorse.

Forse è per questo che, nelle nostre narrazioni, immaginiamo che siano i giapponesi a capire gli alieni: perché il futuro, quantistico  extraterrestre per un pensiero tradizionale , richiederebbe una modalità di pensiero diverso, che gli alfabeti occidentali fanno più fatica ad accogliere.


Informatica di frontiera e presunti limiti della programmazione classica

I linguaggi tradizionali, costruiti secondo una logica “alfabetica” e sequenziale (istruzioni lineari, 0/1), si rivelano poco adatti al nuovo paradigma della computazione quantistica. La ricerca sta mostrando che servono modelli concettuali più vicini a un pensiero olistico e contestuale, capace di accogliere incertezza, parallelismo e significati impliciti.

  • Paradigma diverso dal classico
    Non basta più il codice deterministico passo dopo passo: occorrono linguaggi che integrino probabilità ed entanglement.
  • Vincoli fisici e nuovi sistemi di tipi
    Il no-cloning theorem (impossibilità di duplicare un qubit) obbliga a pensare i dati come risorse uniche. Per questo sono stati sviluppati sistemi di tipi “lineari” che impediscono operazioni vietate dalla fisica.
  • Uncomputation e semplificazione semantica
    Linguaggi come Silq (ETH Zürich) introducono l’“uncomputation automatica”: il programmatore ragiona a livello concettuale, mentre il linguaggio gestisce i vincoli fisici nascosti. È un passaggio da un pensiero “alfabetico-esplicito” a uno “ideogrammatico-implicito”.
  • Nuove pratiche di ingegneria del software
    Testing, debugging e verifica nel dominio quantistico mostrano che le pratiche classiche non bastano: occorrono metodi ibridi classico-quantum, capaci di trattare l’incertezza come parte del sistema e non come errore.

👉 Questi studi confermano che la programmazione quantistica non è solo un’evoluzione tecnica, ma richiede un salto concettuale: dal codice lineare e deterministico al pensiero distribuito, probabilistico e stratificato, un cambio che dialoga sorprendentemente con l’intuizione umanistica delle lingue ideogrammatiche.


Riferimenti

  • Gay, S.J. & Nagarajan, R. (2005). Communicating Quantum Processes. POPL.
  • Ying, M. (2016). Foundations of Quantum Programming. Morgan Kaufmann.
  • Selinger, P. (2004). Towards a quantum programming language. MSCS.
  • Abramsky, S. & Coecke, B. (2008). Categorical quantum mechanics. Handbook of Quantum Logic and Quantum Structures.
  • Bichsel, B. et al. (2020). Silq: A High-Level Quantum Language with Safe Uncomputation. PLDI.
  • Zhou, L. et al. (2020). Quantum Software Engineering: Landscape and Challenges. arXiv.
  • Abreu, R. et al. (2021). On the Engineering of Quantum Software. IEEE Software.

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