Quando destra e sinistra non bastano più, il silenzio delle urne diventa un messaggio politico
Le vecchie ideologie, destra e sinistra, hanno avuto un ruolo preciso nella storia: erano le mappe con cui le società industriali del Novecento orientavano conflitti e soluzioni. Ma oggi quelle mappe non bastano più.
Non perché siano sbagliate, ma perché il terreno è cambiato. Il mondo contemporaneo non è più quello delle fabbriche, delle masse contrapposte, degli schieramenti di classe. È un mondo digitale, interconnesso, segnato da sfide che non conoscono confini: il cambiamento climatico, la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, la fragilità delle democrazie, i flussi migratori, le crisi energetiche.
A dividere le persone non è più la vecchia faglia “Stato o mercato”, ma piuttosto nuove linee di frattura: tra chi guarda all’apertura globale e chi invoca protezione sovrana, tra chi sogna meno Stato e chi chiede più Stato, o magari il giusto compromesso capace di tenere insieme entrambe le esigenze.
Continuare a usare le categorie di un secolo fa significa parlare una lingua che non descrive più il suo territorio.
In termini di Programmazione Neuro-Linguistica, è come confondere la mappa con il territorio: le vecchie parole e le vecchie etichette non corrispondono più alla realtà che pretendono di rappresentare.
Si rischia di parlare un dialetto morto, incapace di orientare nel paesaggio attuale. È come voler interpretare i Big Data con l’abaco: un anacronismo che non offre visione, ma solo nostalgia.
La mappa non è il territorio (dell’elettore)
Il linguista Alfred Korzybski ci ricorda che “la mappa non è il territorio”. In Programmazione Neuro Linguistica (PNL) questo significa che le parole, le ideologie, i modelli politici non coincidono con la realtà che dovrebbero descrivere. Oggi la politica continua a usare mappe vecchie, con categorie di un secolo fa, per orientarsi in un mondo che è cambiato radicalmente.
Ma il territorio vero è quello vissuto dai cittadini: precarietà, disuguaglianze, sfide globali, tecnologie che trasformano la vita quotidiana.
E non basta: il territorio non è solo il presente. È anche l’immaginario del futuro che gli elettori costruiscono ogni giorno: speranze, paure, desideri.
Quando la politica resta ancorata a mappe che non parlano né al vissuto attuale né all’orizzonte futuro, si crea un vuoto. Ed è in quel vuoto che cresce l’astensione: come reazione a mappe politiche incapaci di orientare la realtà e di dare forma all’immaginazione collettiva del domani.
Una politica dei contenuti
Forse la chiave non sta nel cercare un nuovo slogan, ma nel tornare ad una politica che lavora sui contenuti. Una politica bipartisan non nel senso di alleanze di comodo, ma come capacità di riconoscere che alcune sfide non hanno colore: il clima, la giustizia sociale, la gestione dell’intelligenza artificiale, la salute pubblica, la sicurezza delle comunità.
Su questi terreni serve meno ideologia e più immaginazione: saper guardare oltre l’orizzonte immediato, mettere insieme competenze diverse, provare soluzioni nuove. Non importa da dove vengono le idee, ma se funzionano e se aiutano a costruire futuro.
È qui che la politica può ritrovare credibilità: non parlando alle pance contrapposte dentro un pensiero dicotomico, ma costruendo progetti concreti, verificabili, capaci di unire anziché dividere.
Il paradosso della competenza
Eppure, qui si apre un paradosso che mina ulteriormente la fiducia. Ci sono figure che, da accademici, hanno scritto pagine brillanti, proposto soluzioni intelligenti, offerto visioni innovative per la loro materia. Poi, entrati in politica e diventati ministri di quello stesso settore, si sono rivelati inadeguati.
Sulla carta avevano tutto: le analisi, le conoscenze, persino proposte progettuali già pronte. Ma la politica reale non funziona come l’università. Non premia la coerenza, ma il compromesso. Non chiede visione, ma sopravvivenza. E così le competenze che in teoria dovrebbero elevare la qualità delle decisioni si perdono in un ingranaggio che macina consenso più che soluzioni.
È questo scarto, tra ciò che un politico potrebbe fare e ciò che riesce a fare, che alimenta la sensazione di papocchio. Ed è anche questo che spinge tanti cittadini a vedere nell’astensione non disinteresse, ma una forma di coerenza.
Dal consumo politico al linguaggio del vuoto

Un aspetto decisivo lo sottolinea la politologa Jennifer Lees-Marshment nel suo Political Marketing: Principles and Applications (Routledge, 2014): la politica viene vissuta sempre più come un mercato, e i cittadini come consumatori. Valutano il “prodotto politico”, confrontano le offerte e, se non sono convinti, scelgono di non acquistare.
In altre parole: non voto, quindi non compro.
L’astensione diventa l’equivalente politico di un consumatore che, davanti a un’offerta scadente, sceglie di non mettere nulla nel carrello. È il rifiuto silenzioso di un mercato che propone sempre gli stessi prodotti con etichette diverse, senza mai rinnovarne davvero la sostanza.
Come in un supermercato dove gli scaffali sono pieni, ma il cliente non trova ciò di cui ha bisogno, così nell’urna l’elettore si accorge che le opzioni disponibili non rispondono né al suo presente né al suo immaginario di futuro. E decide di uscire senza acquistare.
Questo passaggio dal cittadino al consumatore ha reso fragile la fiducia. I partiti hanno abbandonato le grandi ideologie – ma soprattutto incapaci di elaborarne di nuove – per inseguire i sondaggi e adattarsi tatticamente al mercato elettorale. Così però il messaggio diventa effimero, privo di orizzonte, e il risultato è un pubblico che smette di credere, percependo la politica come un susseguirsi di promesse disattese e “papocchi”.
Dal marketing transazionale al marketing relazionale
Se la politica resta ferma al modello transazionale, “ti do questo, tu mi voti”, continuerà a produrre disaffezione.
Lees-Marshment e altri studiosi propongono invece un passaggio a un approccio relazionale: non più vendita di prodotti, ma costruzione di fiducia, empatia e dialogo di lungo periodo.
Qui si colloca la necessità di una politica dei contenuti: bipartisan, capace di riconoscere che ci sono sfide che non hanno colore politico e che richiedono competenze e immaginazione condivise.
L’astensione come linguaggio del vuoto
Ecco perché cresce l’astensionismo. Non è solo disinteresse, ma un linguaggio silenzioso: un messaggio alla politica che continua a usare parole di ieri per descrivere problemi di domani.
Chi non va a votare non è sempre apatico.
E sicuramente molti di loro non sono integralisti ideologizzati che rifiutano il sistema in blocco. Al contrario, spesso sono cittadini lucidi, che scelgono l’astensione non per indifferenza ma per coerenza: non trovano nella mappa politica attuale alcuna corrispondenza con il proprio territorio reale e con l’immaginario di futuro che portano dentro.
Probabilmente comprendono che la vecchia scelta tra destra e sinistra non risponde più alle domande vere: come affronteremo la crisi climatica? Chi governerà l’intelligenza artificiale? Che ruolo avrà l’Europa in un mondo multipolare?
Astensione e mercato politico

Non è solo un’impressione: diversi studiosi hanno descritto la politica contemporanea come un vero e proprio mercato.
Già l’economista Joseph Schumpeter parlava della democrazia come di una competizione tra élite, più simile a un’arena di venditori che a uno spazio di visione collettiva .
Il politologo Bryan Caplan, nel suo The Myth of the Rational Voter, ha mostrato come l’elettore non sia davvero “razionale”, ma spesso influenzato da bias cognitivi ed emotivi
C’è poi il fenomeno della voter fatigue: quando le elezioni si moltiplicano o le schede diventano troppo complesse ( come ad esempio il vosto disgiunto) subentra la stanchezza che spinge a rinunciare al voto
Infine, i dati globali raccolti da IDEA mostrano che l’astensione non significa sempre disaffezione totale: spesso è un segnale di ricerca di forme alternative di partecipazione (proteste, attivismo civico, mobilitazioni online) che la politica tradizionale non sa intercettare .
In sintesi, il “non voto” non è un vuoto assoluto, ma un linguaggio coerente con il modo in cui la politica è percepita: un mercato che non convince, un’offerta che non corrisponde al territorio reale né all’immaginario del futuro.

L’astensione è anche un segnale di disallineamento generazionale: i giovani crescono in un ecosistema digitale, globale e fluido, ma si trovano davanti partiti che parlano ancora un linguaggio industriale e nazionale. Per molti di loro, partecipare a un movimento ambientalista o a un progetto civico locale ha più senso che mettere una croce su un simbolo.
C’è infine la questione della fiducia. Troppi scandali, troppe promesse tradite: troppi papocchi. La gente lo percepisce, e capisce che spesso la politica non è un luogo di visione, ma un mercato di compromessi al ribasso.
Così la scheda elettorale viene vissuta come carta senza peso, mentre il “non voto” appare come l’unico gesto di coerenza.
Ma se l’astensione diventa maggioranza, la democrazia entra in zona d’ombra. Non basta più interpretare quel silenzio come disaffezione: va ascoltato come domanda di un nuovo linguaggio politico.
Conclusione provocatoria
il gioco dell’astensione
Se le categorie politiche di un tempo sono diventate dialetti scordati, e il silenzio delle urne è il nuovo linguaggio della democrazia… allora chi domina davvero il gioco?
La verità scomoda è questa: l’astensione non spaventa chi governa, anzi. I partiti sembrano sguazzarci dentro, tollerandola, o peggio, incoraggiandola involontariamente.
È un mercato politico in cui i “fedelissimi” (gli hooligans, come li definisce Jason Brennan nel suo testo Contro la Democrazia ) non tradiscono mai e la maggioranza silenziosa non fa rumore. Meno voci, più controllo. Più apatia, meno rischio.
Così la democrazia non appare più come uno spazio vivo e imprevedibile, ma come una realtà addomesticata, protetta e prevedibile: un sistema che si ripete senza scosse, dove la partecipazione si riduce e il risultato è quasi sempre assicurato a chi sta già dentro il gioco.
E così ti rimane una domanda lacerante, sospesa sul finale:
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