Homeland. L’intelligence come doppio taglio.

… quando il dual-use non è una tecnologia, ma una mente


Negli ultimi tre giorni ho voluto rivedere la serie Homeland, perché ricordavo, confusamente, ma con una certa insistenza, che qualcosa, nella trama di molte delle sue otto stagioni, somigliava troppo a ciò che sta accadendo oggi.
Non si tratta solo di suggestioni. Alcune scene, alcuni snodi narrativi, alcune crisi costruite per la fiction sembrano affiorare oggi nella cronaca reale con una precisione inquietante, come se gli sceneggiatori avessero decifrato in anticipo i segnali deboli della storia. Riguardarla ora, con occhi diversi, è come rimettere insieme i frammenti di un puzzle che all’epoca sembrava solo televisivo, e che invece si rivela un esercizio di lettura avanzata del mondo.


Ci sono serie televisive che intrattengono. Altre che denunciano. E poi ce ne sono alcune, rare, che operano. Non solo nella mente dello spettatore, ma nello spazio liminale tra realtà e rappresentazione. Homeland è una di queste.
Non una semplice spy-story, ma una vera e propria simulazione narrativa del potere, un laboratorio di tensioni globali, etiche e personali che si rincorrono lungo le stagioni come se la realtà avesse bisogno del racconto per farsi intuire in anticipo.

Al centro di tutto, Carrie Mathison: mente d’intelligence, corpo vulnerabile, anima instabile.
Ma a ben vedere, ciò che davvero definisce Carrie non è la sua malattia, né il suo genio, né tantomeno il suo patriottismo esasperato. È la sua metamorfosi. La sua capacità, dolorosa, solitaria, inevitabile, di rimanere operativa anche quando la struttura che l’ha formata la espelle.
Carrie non è CIA. Carrie è la CIA incorporata. Anzi: disincarnata.


Carrie Mathison, l’agente che non può smettere di vedere

Carrie Mathison non è solo un personaggio. È una funzione.
Non è l’eroina classica, né l’anti-eroina à la Walter White. È un’interfaccia instabile tra sapere e potere, tra etica e paranoia, tra ciò che è lecito e ciò che è necessario.

Affetta da disturbo bipolare, ma dotata di un intuito che rasenta il preveggente, Carrie incarna un paradosso: più è fragile, più è efficace. Perché la sua mente, costantemente in disequilibrio, è anche quella più capace di cogliere segnali anomali, pattern sfuggenti, bug nel sistema.
Ma il vero centro gravitazionale della sua figura è altrove.
Carrie è una creatura del sistema, formata dalla CIA, addestrata alla logica del sospetto, temprata dalla guerra asimmetrica, ma non riesce più a rientrare nel sistema. È troppo fuori norma per la burocrazia, troppo acuta per essere ignorata, troppo borderline per essere contenuta.

Dopo la sua uscita formale dall’Agenzia, diventa la rappresentazione più chiara del concetto di competenza dual-use applicato all’intelligenza umana.
Carrie non ha più un tesserino, ma ha ancora tutti gli strumenti.
È un cervello-agenzia, un’unità operativa mobile, che legge la realtà come un agente anche quando agisce da civile.
Analizza, prevede, contratta, protegge. Ma lo fa nel vuoto normativo che separa ciò che è legittimo da ciò che è vitale.


Ed è qui che Homeland diventa qualcosa di più. Una riflessione profonda e, in parte, disturbante sul dual-use applicato all’essere umano.

Quando parliamo di dual-use, pensiamo ai droni che sorvegliano e bombardano, ai software civili che diventano armi, alla tecnologia che trasloca da un contesto all’altro mutando funzione ma non essenza.
Carrie è esattamente questo, ma in forma umana. È una tecnologia vivente dell’intelligenza, costruita per leggere segnali deboli, anticipare mosse invisibili, negoziare con la realtà.
Solo che, una volta fuori dal sistema, non smette di funzionare. E anzi: si adatta, diventa consapevole del proprio potere, e lo riconverte.

Nelle stagioni successive alla sua uscita ufficiale dalla CIA, Carrie opera come consulente, stratega, spia freelance, interlocutrice ibrida tra l’apparato e il caos. E lo fa con strumenti cognitivi che non hanno più un badge, ma ancora una funzione.
Questa è la definizione stessa del dual-use: ciò che è stato progettato per un compito specifico che, in un nuovo contesto, diventa qualcos’altro.
Nel caso di Carrie, il know-how dell’intelligence diventa:

  • capacità di riconoscere disinformazione;
  • gestione anticipata del rischio politico;
  • analisi predittiva in contesti non istituzionali;
  • mediazione informale tra poteri, persone, verità.

Ma attenzione: Homeland non romanticizza questo passaggio. Lo mostra per quello che è: pericoloso, ambiguo, lacerante.
Carrie non è un’eroina riconciliata. È una figura tragica, proprio perché sa troppo per tornare ad essere normale, e troppo poco per potersi salvare da sola.
È una mente esposta alla complessità, senza più protezioni né ordini.
Ed è anche per questo che funziona: perché Carrie è il nostro tempo. Un tempo in cui la lealtà non è più ideologica, ma strategica. In cui l’expertise si muove tra pubblico e privato senza confini netti. In cui la guerra non è solo militare, ma narrativa, informativa, psicologica.


Quando la scrittura si fa intelligence culturale

Chi c’è dietro Homeland?

Gli showrunner di Homeland, Howard Gordon e Alex Gansa, non sono sceneggiatori qualsiasi. Provenienti dalla scuola di 24, altro prodotto seriale a forte contenuto geopolitico e ad alto tasso di adrenalina, hanno saputo trasformare il genere thriller in un dispositivo analitico della contemporaneità.
Ma il vero colpo di genio è stato partire da una serie israeliana, Hatufim (Prisoners of War), creata da Gideon Raff, e riconfigurarla per il pubblico statunitense post-11 settembre, traslando i traumi, le ansie e le ambiguità morali dell’America in guerra in un format seriale globale.

Gordon e Gansa hanno lavorato a stretto contatto con consulenti ex-CIA, diplomatici e analisti geopolitici e OSINT, strutturando le stagioni come veri e propri war games narrativi. Ogni episodio nasce da uno scenario plausibile, discusso e verificato, e poi sviluppato secondo logiche strategiche prima ancora che drammaturgiche.
La scrittura di Homeland segue infatti una grammatica dell’intelligence:

  • costruzione di scenari realistici su base di segnali deboli;
  • attenzione alle dinamiche diplomatiche, mediatiche e culturali;
  • accuratezza nel lessico operativo (dalla sorveglianza elettronica all’interrogatorio, dalle cellule dormienti alla guerra cibernetica);
  • uso del plot twist non per spettacolarizzare, ma per simulare l’imprevedibilità del potere.

In un’intervista del 2016, Gansa dichiarò: “non volevamo raccontare la verità. Volevamo mostrare quanto fosse difficile riconoscerla.”
Un’affermazione che, di fatto, posiziona gli autori non come narratori di trame, ma come architetti della percezione: figure che lavorano al confine tra fiction e analisi, tra storytelling e strategia.
E in tempi in cui la narrazione è essa stessa una forma di potere, gli sceneggiatori di Homeland vanno letti come veri e propri operatori culturali dell’intelligence narrativa.


Homeland, nel suo intreccio tra finzione e preveggenza, ci mostra il rovescio del concetto di sicurezza: non si è mai al sicuro quando si sa troppo. E Carrie lo sa. Non ha più un’istituzione alle spalle, ma ha un compito che solo lei sa riconoscere.
E in quel compito, continuamente ridefinito, vive la natura più radicale del dual-use: non la coabitazione di usi diversi, ma la tensione permanente tra l’origine di una competenza e il suo impiego futuro.


Quando la finzione diventa anticipazione

In un episodio del 2020, Carrie Mathison guarda la cartina dell’Afghanistan e sussurra: “Kabul cadrà entro sei settimane. Come Saigon.”
Un anno dopo, nel mondo reale, Kabul crolla in pochi giorni. Il ritiro USA, il caos all’aeroporto, gli elicotteri sopra la capitale: tutto si compie come se fosse stato già scritto, ma Homeland l’aveva già raccontato.

Cinque anni prima, la serie aveva messo in scena un attacco hacker alla sede della CIA a Berlino, con il furto di documenti riservati e fughe di dati. L’anno seguente, nel mondo reale, scoppia lo scandalo Wikileaks e il DNC hack: la rete diventa ufficialmente campo di battaglia, e la guerra cibernetica esce dalla fiction per irrompere nel dibattito politico globale.
In un altro episodio, “Broken Hearts”, il pacemaker di un politico viene violato da remoto per ucciderlo. All’epoca sembrava un azzardo narrativo, eppure Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti, ha raccontato nel 2013, in un’intervista a 60 Minutes, di aver disattivato la funzione wireless del proprio defibrillatore già nel 2007, per paura di un attentato informatico. Disse di aver trovato quella trama “assolutamente credibile”.
E oggi, quel “clic” letale immaginato dalla serie ha assunto una forma ancora più inquietante.
Nel settembre 2024, in Libano e Siria, centinaia di pagers e walkie-talkie destinati a membri di Hezbollah si attivano simultaneamente e esplodono tra le mani degli utenti, provocando decine di morti e migliaia di feriti. Nessuna bomba, nessun drone: solo dispositivi quotidiani trasformati in armi con un comando a distanza.
Proprio come Homeland aveva suggerito: l’oggetto di uso comune, il dispositivo che connette e protegge, può diventare il punto esatto in cui la guerra si insinua.

Non è preveggenza. Homeland non prevede il futuro: lo osserva mentre accade, con lo sguardo di chi sa leggere i segnali deboli, i punti ciechi, gli interstizi tra le notizie.
I suoi sceneggiatori colpiscono lì, nella zona grigia dove la realtà si prepara a diventare storia. Raccontano il crollo prima che sia visibile, la guerra prima che inizi, il sospetto prima che diventi certezza.
Rivederla oggi significa sfogliare un atlante dell’inquietudine che ci ha preceduti.
Non un diario di ciò che è stato, ma un avvertimento sottile di ciò che, forse, stavamo già diventando


Una tensione che non riguarda solo Carrie. Ma anche noi.
Perché nel mondo post-9/11 e post-verità, ognuno di noi è chiamato a diventare analista, osservatore, interprete.
E allora Homeland smette di essere una serie. Diventa una lente per leggere il presente, una bussola per chi sa che le regole non bastano più. E che a volte, il vero campo di battaglia è la coscienza.


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