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Non sempre scrivo perché ho qualcosa da dire.
Anzi, spesso è il contrario: scrivo per capire se c’è davvero qualcosa da dire.
Sono appunti, note, riflessioni che nascono da stimoli diversi: una notizia letta al volo, un convegno che accende una scintilla (come l'ultimo, da cui sono nati i primi episodi su Napoli), una ricerca scientifica, un libro che sto recensendo o un film che rivedo per cogliere quella motivazione non detta che l’autore lascia tra le righe… e per chiedermi che senso assume tutto questo se lo guardo attraverso la lente delle scienze cognitive e comportamentali.
Oppure, perché no, una colossale puttanata sentita in giro, o lanciata dai media, di quelle che chiedono una risposta scritta più per indignazione che per ispirazione.
Non sono testi con una tesi già definita. Sono pezzi sparsi, come pagine di un diario di bordo interiore.
Col tempo, però, i frammenti si richiamano: la nota su un saggio dialoga con una scena di cinema; una riga di cronaca aggancia un’intuizione nascosta in un romanzo; un bias cognitivo illumina una reazione collettiva. Si incardinano, trovano un filo.
E da lì, quasi senza accorgermene, si compone un discorso con più senso.
È in questo processo che viene fuori il mio lato da “provocatore culturale”: il mio animo da Decimo Uomo. Sposto il punto di vista quel tanto che basta per tentare di far scattare un pensiero laterale.
Nelle mie recensioni faccio la stessa cosa: cerco il perché implicito che trapela nei dettagli e lo metto in dialogo con come funzioniamo davvero: mente, emozioni, bias.
Da lì nasce la conversazione che per me conta.
Perché, in fondo, rifletto, scrivo, recensisco per pensare insieme.
Non per convincere.