Un ponte di senso

Libertà senza personaggio – Episodio 3

Quando invecchiamo, la domanda non è solo quanto tempo ci resta.
La domanda più scomoda è un’altra: quanto ancora vogliamo coincidere con il ruolo che siamo stati.
Per una vita intera possiamo identificarci con ciò che facciamo: progetti, incarichi, risultati, responsabilità. Poi arriva una soglia. A volte una perdita, a volte una frattura, a volte una semplice stanchezza profonda, e ti accorgi che il personaggio non basta più a dire chi sei.
Questo terzo episodio nasce da lì.
Non per raccontare un bilancio, ma per provare a mettere a fuoco che cosa significa, nella seconda parte della vita, continuare a essere ponte: tra ciò che siamo stati e ciò che può ancora essere utile agli altri.
Non come ruolo, ma come presenza.


Cambiare ruolo per generare nuovo senso

Per molto tempo ho pensato che la mia traiettoria fosse una linea: teoria, competenze, modello, risultato; così come, prima ancora, nello sport: allenamento, impegno, obiettivo, performance, competizione.
Un percorso che doveva tenere insieme visione e sostenibilità, idee e struttura, pensiero e mercato.

E in effetti, per quasi vent’anni, la mia energia mentale è andata soprattutto lì: trasformare un impianto teorico, nato con Umanesimo & Tecnologia, in un sistema che potesse reggere sul piano economico, produttivo, organizzativo
Viaggiavo, investivo tempo e denaro, costruivo reti, cercavo alleanze. L’impegno sociale, in quegli anni, non era assente, ma restava sullo sfondo, quasi un effetto collaterale: ciò che mi interessava davvero era dimostrare che un’idea complessa poteva stare dentro il mondo reale, senza dissolversi nella buona volontà o nella testimonianza etica.

A posteriori, mi accorgo che quello è stato un lungo tempo di identificazione piena col ruolo. Non in senso narcisistico, ma funzionale: io ero ciò che facevo, e ciò che facevo doveva stare in piedi da solo. Il resto – relazioni, fragilità, perdite – restava ai margini della scena.
Poi quella scena si è incrinata.

Con la morte di mio padre si è aperta la prima crepa.
Non una frattura rumorosa, ma una fessura lenta, che ha cominciato a far entrare domande che non avevo previsto: che cosa resta quando non sei più definito solo da ciò che produci? Che cosa succede quando qualcuno che ti ha “restituito” per una vita un’immagine di te come figlio, come uomo, scompare?

Poco dopo, l’esperienza del caregiving di mio zio ha reso quella crepa una soglia.
Il corpo fragile, la dipendenza quotidiana, il tempo che si contrae attorno ai gesti essenziali hanno spazzato via ogni illusione di controllo. Lì ho toccato con mano che i ruoli, quando la vita stringe, non ti salvano. Possono sostenerti per un tratto, ma poi vengono via uno a uno.

È in quel tempo che il lavoro si è ritirato sullo sfondo. Non per scelta strategica, ma per necessità.
E proprio mentre il personaggio professionale si sfilacciava, ha cominciato a prendere forma una domanda diversa: che cosa può restare generativo di me, ora che non inseguo più la performance?

Erikson, senza manuale

Leggendo Erikson, ho trovato parole che nominavano ciò che stavo attraversando senza saperlo: generatività contro stagnazione, integrità dell’Io contro disperazione.

Finché sei dentro la spinta della produzione, della crescita, dell’avanzamento, la generatività sembra coincidere con il “fare”.
Poi, quando il fare si riduce, capisci che la questione è un’altra: non si tratta più di produrre qualcosa, ma di trasmettere senso, di restare un passaggio, non un blocco.

La stagnazione non è smettere di lavorare.
È chiudersi dentro se stessi. È quando tutto ciò che hai accumulato non trova più una direzione verso l’esterno.

E l’integrità dell’Io non è la somma dei successi.
È riuscire, quando il bilancio si impone, a dire: la mia vita, così com’è stata, ha avuto un filo che posso ancora riconoscere come mio.

Ho cominciato a vedere mio padre e mio zio anche così: non solo come storie di declino, ma come due esiti diversi del rapporto tra identità e perdita di ruolo. E, dentro questo sguardo, ho iniziato a rimettere a fuoco anche me stesso.

La via che torna indietro, per andare avanti

La strada che si è aperta dopo non è stata nuova.
È stata una strada che tornava indietro.

È riemersa la mia vita di prima, quella da militare atleta dei Carabinieri.
Un mondo che avevo attraversato da giovane e che, per anni, avevo tenuto in una sorta di parentesi biografica.

Poi, quasi per caso – o forse no, il destino – un generale in congedo, mio ex comandante, mi ha rimesso davanti un’intuizione che suonava semplice, ma che non lo era affatto: perchè non lavori su “Popolo e Carabinieri”?
Non come formula retorica, ma come legame vivo, da ricostruire ogni giorno.

In quel momento mi sono ricordato che ero da tempo associato all’Associazione Nazionale Carabinieri. Un dato che per 25 anni era rimasto soprattutto formale.
Ma ora, dentro il tempo sospeso del caregiving e della perdita, a 60 anni quella appartenenza si è trasformata in domanda di posizione: da che parte sto, adesso, dentro la comunità?
Non come ruolo, ma come presenza.

Ho ricominciato a studiare. Non più per costruire modelli di business, ma per sviscerare quell’assunto: che cosa vorrebbe dire davvero “Popolo e Carabinieri” oggi?
Come si traduce nella difesa civile e protezione civile, nella sicurezza partecipata, nella cultura della prevenzione, nell’educazione al rischio, nella relazione reale con i territori?

È stato lì che ho capito che stavo entrando in una seconda generatività, questa volta consapevole.
Non più spinta dall’ambizione di far funzionare un sistema, ma dal bisogno di rimettere le competenze dentro la vita degli altri.

In questo senso, il cerchio si è allargato anche oltre il perimetro dei Carabinieri (4.0) e della protezione civile.
Con il progetto Eudora, nato trent’anni dopo Umanesimo & Tecnologia, tento di riprendere lo stesso filo su un altro fronte: se allora il digitale era il salto concettuale che rischiava di lasciare indietro le persone alimentando il digital divide culturale, oggi lo è la quantistica.
Una scienza contro-intuitiva, con il suo linguaggio difficile e le sue enormi implicazioni per il futuro della tecnologia.

Come allora per il digitale, il punto non è “spiegare la scienza” in astratto, cosa che molti scienziati sanno fare molto bene tra loro, ma tradurre : costruire ponti di senso per il cammino dell’Uomo comune, perché questa nuova frontiera, che si tratti di bit o di qubit, non resti patrimonio di pochi, ma diventi parte di una cultura condivisa, in un mondo che cambierà di nuovo dopo l’avvento digitale.

Anche questo, per me, è generatività: continuare a contribuire a tradurre le soglie del progresso tecnologico in qualcosa che le persone possano pensare, discutere, abitare, perché da quella comprensione possa nascere, un giorno, un vero cambio di paradigma: fondato sulla comprensione e non soltanto sulla fede alla scienza.

Generatività non è fare di più. È fare anche per Altri.

La generatività, a questa età, non ha nulla dell’eroico.
Non è “salvare il mondo”. È continuare a essere ponte tra ciò che sai e ciò che serve. Tra l’esperienza accumulata e qualcuno che possa farne qualcosa, anche in modo diverso da come avevi immaginato.

Ho scoperto che il vero contrario della vecchiaia non è la giovinezza, ma la relazione viva.
Finché qualcuno ha ancora bisogno di te, non come ruolo ma come presenza, l’Io non si richiude.

Per questo oggi il mio impegno nel sociale non lo sento come “attività aggiuntiva”.
Lo sento come trasformazione della funzione.
Non produco più come prima. Non corro più come prima. Ma posso ancora trasmettere, coordinare, dare forma, tenere insieme pezzi.
E questo, per me, ha lo stesso peso di una carriera.

Integrità o disperazione

Erikson dice che l’ultima grande alternativa della vita è questa: integrità o disperazione.

La disperazione è lo sguardo che dice: è stato tutto inutile.
L’integrità è quello che riesce a dire: non è andata come pensavo, ma è stata mia, e qualcosa resta.

Guardando mio padre, ho visto quanto il lutto possa scivolare verso la perdita di senso.
Guardando mio zio, ho visto quanto una vita enorme possa diventare silenziosa se non trova più spazi di trasmissione.
Guardando me stesso, ho capito che senza un passaggio verso l’esterno – sociale, culturale, umano- anche la mente più allenata rischia di richiudersi su se stessa. Sgarbi docet.

Libertà senza personaggio

Se nell’Episodio 2 ho raccontato la caduta del personaggio, qui posso dire questo: l’Uomo non è obbligato a cadere con lui.

Ma non si salva da solo.
Si salva solo se trova un punto in cui ciò che è stato può ancora diventare utile per altri, non come potere, ma come senso condiviso.

A dire il vero, a me non è mai interessato davvero “essere un personaggio”.
Se avessi voluto, avrei lavorato da subito sul personal branding, sulla costruzione di un’immagine riconoscibile, sulla messa in scena di me stesso. Ho scelto invece un’altra strada: mettere in primo piano le idee, i progetti, il lavoro in cooperazione con gli altri, più che la mia figura.

Non ho più bisogno di una corona,
né di una maschera.

Mi basta sapere che servo a qualcosa
che non finisce con me.

Perché questo mondo gira in fretta
e il tempo non è gratis.
È solo tempo preso in prestito.

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Una piccola trilogia sulla vecchiaia

Riguardando questi tre testi insieme, mi accorgo che non sono nati come “progetto editoriale”.
Sono nati come si aprono certe stanze quando la vita ti costringe a passarci più volte davanti.
Nel primo episodio, Allenare la mente all’alba degli anni di vita che restano, ho provato a dire che la vecchiaia non è solo qualcosa che “capita”, ma anche qualcosa a cui ci si può preparare: non in palestra, ma nel modo in cui costruiamo le nostre abitudini di pensiero, la nostra disciplina interiore, la nostra capacità di restare vigili su noi stessi.
Nel secondo, Quando invecchiano i personaggi, ho guardato da vicino ciò che succede quando questa preparazione non basta, o non c’è stata: il lutto che sgretola il senso di sé, il corpo che cede, i ruoli che si svuotano, le maschere che non reggono più.
Mio padre, mio zio, un personaggio pubblico come Sgarbi sono diventati, loro malgrado, tre specchi della stessa domanda: che cosa resta di noi quando il personaggio finisce?
In questo terzo episodio ho provato a spostare lo sguardo su un altro punto della stessa traiettoria: che cosa significa continuare a generare senso, per sé e per gli altri, quando il ruolo non è più il centro.
Qui entrano Erikson, la generatività, ma soprattutto la vita concreta: Umanesimo & Tecnologia, il tentativo di trasformare un modello in sistema, la rottura della malattia e del caregiving, il ritorno consapevole all’impegno sociale, a “Popolo e Carabinieri”, a Eudora e all’outreach quantistico, all’idea che le competenze possano diventare servizio.

Se c’è un filo che tiene insieme questa piccola trilogia, non è un discorso sulla vecchiaia in generale, ma una cosa più semplice e più esigente: come facciamo a non identificarci del tutto con il nostro personaggio, senza però smettere di essere utili a qualcuno?
Per me, che non ho mai cercato di “essere un personaggio”, questi tre testi sono anche un chiarimento:
ho sempre messo al centro le idee, i progetti, il lavoro con gli altri più che la mia figura. Qui, per una volta, lascio intravedere da dove nasce quel lavoro: da un corpo che invecchia, da lutti attraversati, da ruoli perduti e ripensati, da una scelta testarda di restare, finché possibile, parte di un tessuto umano e sociale.
Allenare la mente, guardare in faccia il crollo dei ruoli, scegliere una forma di generatività sociale non sono tre temi diversi.
Sono tre modi di rispondere alla stessa domanda, in tre momenti diversi della vita.
Se queste riflessioni servono a qualcosa, forse è solo a questo: a ricordare che il tempo che resta non è il tempo in cui “non abbiamo più niente da dimostrare”, ma il tempo in cui possiamo decidere, finalmente, a che cosa vogliamo servire.
Anche quando il personaggio è uscito di scena, c’è sempre ancora un po’ di spazio per restare, in qualche modo, parte della storia degli altri.


Questo testo è il terzo episodio di “Piccola anatomia della vecchiaia” come lavoro mentale e identitario.
Il primo è: Allenare la mente all’alba degli anni di vita che restano.

Il secondo è: Quando invecchiano i personaggi

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