Inno al Limite

Nel 1863 Carducci scrive l’Inno a Satana: un inno provocatorio alla scienza e al progresso industriale, dove Satana e la locomotiva diventano simbolo della ragione moderna che “divora i piani” e sfida l’oscurantismo religioso. Oggi il nostro Satana non abita più nelle officine a vapore ma nei codici: algoritmi, reti neurali, biotecnologie, sogni di uomo potenziato.
Se volessimo aggiornare quella metafora, potremmo parlare di un Inno a Satana 2.0: non più alla locomotiva, ma al culto dell’upgrade permanente.
Luddisti contro transumanisti: da una parte chi teme la tecnologia, dall’altra chi sogna di superare il corpo, la malattia, perfino la morte a colpi di chip e algoritmi. Il dibattito sembra un derby: favorevoli o contrari, progresso o regressione, futuro o nostalgia.
Ma forse la domanda interessante non è: “sei pro o contro la tecnologia?”
Forse la vera domanda è un’altra: che cosa, nella vita reale, rifiuta di farsi trasformare in un progetto di ottimizzazione?
Perché la vera nemesi del transumanista non è il luddista che rompe le macchine. La vera nemesi è l’umano concreto: il corpo che invecchia, la mente che si contraddice, gli affetti che complicano i piani, le disuguaglianze che restano, un pianeta che non regge la favola della crescita infinita.
In questo pezzo provo a raccontare perché, e al centro inserisco un piccolo “inno” a ciò che vuole resistere: l’Inno al Limite.

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Tra luddisti e transumanisti, perché la realtà umana è il vero limite dell’uomo potenziato

Luddisti contro transumanisti: da una parte chi teme la tecnologia, dall’altra chi sogna di superare il corpo, la malattia, perfino la morte a colpi di chip e algoritmi. Il dibattito pubblico sembra spesso un derby: favorevoli o contrari, progresso o regressione, futuro o nostalgia.

Eppure la domanda davvero interessante, forse, non è: “Sei pro o contro la tecnologia?”. Formulata così, è una trappola retorica: o ti schieri con il futuro, o sembri parte del passato. La vera domanda, più scomoda, è un’altra: che cosa, nella vita reale, rifiuta di farsi trasformare in un progetto di ottimizzazione?

Per me non è solo un gioco di citazioni. Da oltre trent’anni mi occupo con i miei colleghi di Umanesimo & Tecnologia per contrastare il digital divide culturale e, già all’inizio degli anni Duemila, fui coinvolto in un incarico che usava proprio quella metafora. Per un concept audiovisivo intitolato Scintilla ricostruimmo simbolicamente il primo treno Napoli–Portici, evocando l’Inno a Satana di Carducci in un flusso energetico di pensiero che si trasforma in ingranaggi, i quali si assemblano fino a diventare, in CGI, la locomotiva Bayard: una corsa del progresso che accende il futuro ma può anche travolgere chi resta indietro.
Oggi, con l’Intelligenza Artificiale e il sogno transumanista, il “treno” è cambiato: non corre più su binari d’acciaio, ma dentro codici.
La domanda, però, è sempre la stessa: che cosa vogliamo salvare dell’umano mentre la tecnica accelera?

Perché la vera nemesi del transumanista che costruisce e celebra le tecnologie non è il luddista che invece rompe le macchine. La vera nemesi è l’umano concreto: il corpo che invecchia, la mente che si contraddice, gli affetti che complicano i piani, le disuguaglianze che restano, un pianeta che non regge la favola della crescita infinita. È questo “resto irriducibile” che mette in crisi la fantasia dell’Uomo 2.0 sempre in cerca dell’aggiornamento, l’upgrade, performante.

Se guardiamo meglio, non è solo una contrapposizione tra chi dice sì e chi dice no alle tecnologie. È il confronto tra due idee di vita: da un lato la vita come processo ottimizzabile, misurabile, scalabile, da migliorare all’infinito; dall’altro la vita come intreccio di limiti, fragilità e contraddizioni, che generano senso proprio perché non sono del tutto sotto controllo. È su questo crinale che si gioca il conflitto: non tra passato e futuro, ma tra complessità del reale e semplificazioni tecnocratiche.

Ci sono almeno cinque livelli in cui questa resistenza del reale diventa evidente. Il primo è il corpo: non è solo hardware difettoso da correggere. Nel corpo che invecchia, nella malattia, nella fatica ci sono anche relazioni, cura, responsabilità. Una cicatrice non è un errore di progettazione: è memoria vivente. Il secondo livello è la psiche: non è solo un sistema di elaborazione dell’informazione. È fatta di paure, desideri, ossessioni, miti, bisogno di senso. Non vuole soltanto funzionare meglio: vuole riconoscersi in ciò che è, anche a costo di restare imperfetta. Il terzo livello sono i legami: rallentano, complicano, fanno male. Ma senza legami, la vita può essere tecnicamente efficiente e umanamente vuota. Il quarto livello è quello politico: ogni tecnologia entra in un mondo già diseguale, e se non è governata amplifica gerarchie e privilegi. Il quinto è il pianeta: il sogno dell’upgrade infinito ignora che viviamo su un supporto fisico finito.

Per dare voce a questa resistenza, ho provato a far parlare il limite non come ostacolo, ma come condizione umana.
Ne nasce un piccolo “inno” a ciò che non entra in nessun algoritmo di ottimizzazione.

Inno al Limite

Non ai circuiti canto,
non ai chip lucenti sotto vetro,
non alla pelle tradotta in codice.

Canto il corpo che invecchia,
la mano che trema mentre firma,
la cicatrice che non vuoi mostrare
e invece racconta chi sei.

Canto la mente che sbaglia,
che si perde in un ricordo storto,
che piange senza motivo
davanti a una canzone alla radio.
Non è un bug:
è il modo in cui il cuore tira il freno a mano
quando vai troppo veloce.

Canto i legami che rallentano,
il figlio che interrompe la riunione,
il padre che non ricorda più il tuo nome,
l’amico che ti chiede tempo
proprio nel giorno sbagliato.
La tua vita “ottimizzata” si inceppa,
ma in quell’ingorgo,
per un attimo, ti ricordi
per chi vivi davvero.

Canto la politica scomoda,
le ingiustizie che resuscitano
ogni volta che una nuova macchina
promette di salvare tutti
e poi funziona meglio
per chi era già salvato prima.

Canto la Terra che non firma,
che scrolla la schiena
tra tempeste e siccità,
che ti ricorda che non esistono
upgrade infiniti
in un mondo finito.

E a te,
profeta della versione 2.0 dell’Uomo,
dico piano:
la tua vera nemesi
non è chi rompe le macchine,
ma chi continua a nascere fragile,
ad amare male,
ad avere paura,
a scegliere tardi,
a sbagliare comunque
e, nonostante tutto, ostinatamente,
chiama questo caos
vita.

Dietro le immagini, il messaggio è semplice. Non si tratta di rifiutare la tecnologia in sé. Non è un elogio della sofferenza per la sofferenza, né un invito nostalgico a tornare al mondo analogico. È una critica a un certo immaginario dell’ottimizzazione totale, dove il corpo diventa un problema da risolvere, la mente un software da ripulire dai bug, i legami variabili disturbanti, le disuguaglianze semplici “effetti collaterali” e il pianeta un accessorio sostituibile del nostro sogno di immortalità.

L’Inno al Limite prova a dire l’esatto contrario:
il corpo ha il diritto di invecchiare senza essere trattato come un errore di design;
la psiche ha il diritto di restare contraddittoria, opaca, non lineare;
i legami hanno il diritto di rallentare la nostra efficienza;
la politica ha il dovere di interrogare chi guadagna e chi perde con ogni salto tecnologico;
il pianeta ha il diritto di non essere ridotto a fondale della nostra fantasia di upgrade infinito.

Se questa logica dell’ottimizzazione emerge in forma quasi estrema nel caso dell’Intelligenza Artificiale – prestazioni impressionanti, ma senza corpo, storia, desiderio – ho provato a raccontarlo in un altra riflessione, partendo dalla figura di Kim Peek e dal parallelo con le reti neurali chiedendomi se le AI fossero degli idioti savant.

In questo senso, la vera nemesi del transumanista non è chi rifiuta la tecnologia, ma tutto ciò che nell’umano rifiuta di farsi ridurre a progetto di ottimizzazione.
Il luddista dice “fermiamoci”. La realtà umana dice qualcosa di diverso: anche se acceleriamo, noi restiamo fatti di limiti.
Possiamo aumentare l’aspettativa di vita, ma non cancellare il fatto che prima o poi dovremo lasciare.
Possiamo potenziare memoria e attenzione, ma non eliminare il bisogno di senso.
Possiamo circondarci di dispositivi intelligenti, ma non evitare la solitudine se spezziamo i legami.
Possiamo creare tecnologie potentissime, ma senza regole allargheremo il fossato tra potenziati e non potenziati.
Possiamo sognare di esportare l’umano nello spazio, ma intanto stiamo consumando la nostra unica casa attuale.

Per questo il punto non è scegliere tra rompere le macchine o adorarle. Il punto è che posto diamo al limite nella nostra idea di progresso.
Siamo disposti a pensare tecnologie che rispettino il corpo, la psiche, i legami, la giustizia, il pianeta?
Siamo capaci di progettare innovazione senza cancellare la fragilità, ma tenendola in conto come parte non negoziabile dell’umano?

L’Inno al Limite non è un canto alla rassegnazione, ma un promemoria. Ci ricorda che, se perdiamo il contatto con la nostra finitezza, perdiamo anche il contatto con ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Non è odio per il futuro: è la difesa di un’idea scomoda ma essenziale.
Un uomo “potenziato” che perde la propria umanità non è un passo avanti: è un cortocircuito.


Riflessioni sul tema:
Intelligenza Artificiale
Digital Divide Culturale

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