e raccontarlo? Ovvero il futuro come specchio coperto di polvere
In molti Paesi la fantascienza non è un’evasione, ma una palestra del pensiero.
Serve a immaginare ciò che ancora non esiste, a trasformare la paura del domani in linguaggio condiviso.
Negli Stati Uniti la scienza diventa cinema, in Giappone diventa catarsi, in Corea e in Francia diventa critica sociale o poesia visiva.
Da Star Wars a Ghost in the Shell, da Matrix a Snowpiercer, il futuro è diventato un mito collettivo, un esercizio di visione.
E l’Italia?
Noi abbiamo custodito la memoria, ma abbiamo smesso di immaginare.
Abbiamo avuto Leonardo, Bruno, Campanella, Galileo, menti capaci di vedere oltre il loro tempo, ma pochi capaci di tradurre quel genio in racconto, in cinema, in visione popolare.
E ancora oggi, mentre le università americane spiegano la fisica quantistica attraverso Interstellar o Antman, noi ci perdiamo in mostre e convegni che parlano di scienza senza farla immaginare.
Forse non ci manca la creatività, ma il coraggio di raccontarla.
Abbiamo imparato a ricordare, non a prevedere.
E il nostro futuro, come uno specchio coperto di polvere, aspetta solo di essere guardato di nuovo.
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In molti Paesi la fantascienza non è mai stata evasione, ma un laboratorio dell’anima collettiva: una palestra dove si allena la capacità di immaginare il domani.
Negli Stati Uniti, da Star Wars a Matrix fino ad Arrival, la sci-fi ha dato forma a visioni politiche e spirituali.
In Giappone, ferito da Hiroshima, è diventata catarsi nazionale: Akira e Ghost in the Shell raccontano la mutazione dei corpi come elaborazione del trauma.
La Corea del Sud, con Snowpiercer e The Silent Sea, ha trasformato il futuro in una parabola sociale; la Francia, con Bilal, Caro e Jeunet, lo ha fatto diventare filosofia in forma estetica.
La Russia e l’Europa dell’Est, dai fratelli Strugackij a Tarkovskij, hanno usato la fantascienza per interrogare l’anima.
In America Latina il fantastico è stato uno specchio politico; in Africa, l’Afrofuturismo ha riscritto l’immaginario come atto di liberazione.
In Cina, infine, con Liu Cixin e Il problema dei tre corpi, la fantascienza è diventata il linguaggio stesso del potere e della visione geopolitica.
E noi?
L’Italia, nella coralità di queste voci che hanno osato il futuro, sembra aver scelto un’altra strada: quella di custodire la memoria, più che di immaginare ciò che ancora non esiste.
Abbiamo raccontato la famiglia, la politica, la fede, la colpa. Ma raramente il futuro.
Il nostro specchio, semplicemente, è rimasto coperto di polvere.
Futurismo e dopoguerra
il sogno interrotto
Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma noi abbiamo avuto il Futurismo!”.
Sì, lo abbiamo avuto. Ma fu più un grido che un linguaggio.
Il Futurismo esaltò la velocità e la macchina, ma non generò una narrativa capace di sopravvivere al proprio entusiasmo.
Si incendiò nel nazionalismo e nel fascismo, lasciando dietro di sé la traccia luminosa ma breve di un sogno interrotto.
Da allora, l’Italia ha preferito guardarsi allo specchio della storia piuttosto che a quello del possibile.
La fantascienza italiana, come osservano Brioni e Comberiati (Italian Science Fiction, 2019) o Iannuzzi (Letteratura fantascientifica italiana, 2014), è rimasta ai margini, priva di un respiro mitopoietico.
Il cinema non è stato diverso: Nirvana di Salvatores o They Call Me Jeeg Robot sono eccezioni che confermano la regola.
Abbiamo grandi autori, ma nessuna scuola del futuro.
Una lunga educazione alla memoria
Forse la radice è più profonda.
Per secoli, la Chiesa Romana ha educato l’Italia a custodire, non a immaginare: ha insegnato a guardare il tempo come un cerchio che si chiude in Dio, non come una linea che si apre verso il possibile.
Eppure di visioni ne abbiamo avute, eccome.
Leonardo progettava macchine volanti e automi quando il mondo ancora non sapeva nemmeno nominarli.
Bruno, Campanella, Galileo: ciascuno di loro vide più lontano di un’epoca intera.
Il problema non è mai stato il genio, ma ciò che gli è mancato intorno: menti capaci di tradurre quelle intuizioni in narrazioni condivise, in linguaggi, in proiezioni collettive del futuro.
Lo si vede ancora oggi, nelle commissioni di valutazione universitarie, nei concorsi culturali, nelle giurie che giudicano l’arte e la ricerca: si premia chi conferma, non chi apre strade.
È la prova provata di un Paese che continua a onorare i geni del passato, ma diffida di quelli del presente.
E la stessa dinamica si ripete quando si tratta di spiegare e divulgare il pensiero scientifico di frontiera.
Se si deve introdurre i giovani alla meccanica quantistica, le università americane usano scene di Ant-Man, Interstellar o Everything Everywhere All at Once, fino ad ibridare le performance di famosi scienziati ed attori, per costruire metafore visive che fanno immaginare l’invisibile.
Noi, invece, ci arrovelliamo in dibattiti e mostre che parlano della scienza ai giovani, ma non la fanno vedere, privandola di quella forza narrativa capace di trasformare elementi di conoscenza in stupore.
È anche così che si misura la distanza tra chi coltiva una cultura del futuro e chi si limita a custodirne la memoria.
Mentre altre nazioni hanno saputo trasformare la propria immaginazione in soft power, costruendo miti esportabili, dall’American Dream al Giappone cibernetico, noi non abbiamo saputo raccontare il nostro genio al mondo.
Siamo stati la terra delle visioni isolate, ma non degli interpreti capaci di trasformarle in destino.
Nell’Ottocento, mentre Verne e Wells costruivano mondi futuri, noi riscrivevamo la storia del Risorgimento.
Nel Novecento, il neorealismo ci ha insegnato a ricordare, non a immaginare.
Così, film dopo film, pagina dopo pagina, il futuro è rimasto una parola sospetta, quasi una bestemmia laica in un Paese che ha fatto del passato la sua unica forma di eternità.
Quattro specchi dello stesso limite
Fantascienza, esoterismo, documentaristica e scienza: quattro superfici dello stesso specchio appannato.
Tutti rivelano lo stesso nodo culturale: la difficoltà di trasformare il pensiero in visione.
Fantascienza.
Altrove genera mitologie; da noi resta esercizio di stile o nostalgico citazionismo.
Esoterismo.
In Inghilterra e Francia ha nutrito la letteratura da Blake a Huysmans, da Machen a Yeats.
In Italia resta un sottotesto, confinato in circoli o allegorie, come nota Franco Pezzini (Sotto il segno del drago, 2012).
Documentario.
Da Herzog a Theroux è diventato poesia del reale.
Da noi è ancora didascalia: un genere che spiega, più che evocare.
Divulgazione scientifica.
In altri paesi è spettacolo e immaginario, basti pensare a Sagan o a Neil deGrasse Tyson.
Da noi resta accademica, autoreferenziale, priva di pathos narrativo (Bucchi, Engaging Science, 2016).
In fondo, si tratta dello stesso difetto d’origine: la nostra cultura parla in modo corretto, ma non immagina.
L’antropologia come chiave di rinascita
Eppure, proprio in questo limite si nasconde una possibilità.
L’antropologia applicata, come ricorda Adriano Favole (Antropologia applicata, 2010),
nasce per portare la conoscenza dentro la vita concreta.
Non si limita a osservare: interviene, traduce, ibrida.
Può diventare il ponte tra linguaggi artistici e scientifici, tra umanesimo e tecnologia, tra l’immaginazione e la sua messa in forma.
Jean Baudrillard, già nel 1978, aveva intuito che l’osservazione antropologica non riguarda più i popoli lontani, ma noi stessi.
In All’ombra delle maggioranze silenziose, descriveva i media come nuovi rituali collettivi, dove la massa assorbe il senso invece di produrlo.
Riprendendo Ernesto de Martino, rovesciava l’incontro etnografico: non siamo più noi a osservare l’Altro, ma è l’Altro – la macchina, lo schermo, il sistema mediale – che osserva noi.
In questo sguardo capovolto nasce una antropologia dell’immaginario mediale, capace di leggere la nostra epoca come un universo simbolico abitato da miti tecnologici e simulazioni di senso.
La media anthropology (Postill & Peterson, 2009; Rothenbuhler, 2005) prosegue su questa strada: mostra che i media non rappresentano soltanto il mondo, ma lo creano.
Ogni racconto, ogni immagine, ogni suono diventa un rito di appartenenza collettiva, un esercizio di costruzione simbolica.
E in questo contesto, il cultural placement, l’inserimento strategico di contenuti culturali nei prodotti mediali, può essere interpretato come una vera antropologia del futuro: un modo per orientare l’immaginario e restituirgli la sua funzione più antica e dimenticata, quella di educare attraverso il desiderio.
Baudrillard e l’antropologia dell’immaginario mediale
In All’ombra delle maggioranze silenziose (1978), Jean Baudrillard non fa antropologia, ma ne assume il gesto fondativo: guardare l’uomo da fuori di sé. Citando Ernesto de Martino e il suo “scandalo iniziale dell’incontro etnografico”, Baudrillard suggerisce che ogni civiltà, per comprendersi, deve passare attraverso lo sguardo dell’Altro.
Nelle sue pagine, la massa e i media diventano l’equivalente moderno delle culture studiate dagli antropologi: rituali collettivi che assorbono il senso invece di produrlo. In questa prospettiva, l’antropologia diventa un laboratorio dell’immaginario, e i media ne sono il campo simbolico contemporaneo.
Così, ciò che Baudrillard anticipa come antropologia del presente si intreccia con la media anthropology di Postill, Rothenbuhler e Couldry: non più lo studio dei popoli lontani, ma l’osservazione delle nostre mitologie tecnologiche. È lo stesso sguardo che anima oggi la riflessione di Umanesimo & Tecnologia: leggere nei media e nelle reti non solo strumenti di comunicazione, ma rituali simbolici che costruiscono o limitano l’immaginario del futuro.
Guardare di nuovo nello specchio
Il futuro, in Italia, non è mai scomparso. È solo nascosto sotto uno strato di polvere.
Sta a noi soffiare via quella polvere, senza paura di ciò che potremmo vedere riflesso: un Paese che, per troppo tempo, ha raccontato se stesso come ciò che è stato, e che ora deve cominciare a raccontarsi come ciò che può diventare.
Immaginare il futuro non significa tradire la memoria.
Significa, piuttosto, completarla
Breve ricostruzione storica
In Italia l’immaginazione del futuro ha sempre incontrato un freno: la Chiesa Romana, per secoli arbitro del pensiero e dell’immaginario, ha orientato la cultura più verso la conservazione della memoria e l’escatologia che verso la costruzione di scenari alternativi. Non a caso, le grandi visioni cosmologiche o utopiche nate nel Rinascimento furono condannate come eretiche.
- Rinascimento ed età moderna
L’Italia è stata la culla di straordinarie innovazioni (scienza, arte, tecnica). Pensiamo a Leonardo da Vinci: uno che progettava macchine volanti e robot meccanici in un’epoca in cui nessuno osava. Ma le sue invenzioni restarono isolate, più visioni individuali che semi di un immaginario collettivo. L’Italia brillava nel genio singolare, non nella costruzione di scuole proiettate al futuro.
Con Galileo, Campanella, Bruno, Vanini, l’Italia ha prodotto pensatori che hanno anticipato visioni cosmologiche e utopie radicali. Ma questi autori furono condannati, emarginati, messi al rogo. La presenza della Chiesa Romana come arbitro culturale non favoriva immaginazioni alternative del futuro: le visioni utopiche diventavano subito eretiche o sospette. - Ottocento
Mentre Francia e Inghilterra creavano la letteratura fantastica e proto-fantascientifica (Verne, Shelley, Poe, Wells), l’Italia era assorbita dal Risorgimento e dal romanzo storico (I Promessi Sposi, Guerrazzi, Nievo). Ancora una volta, il passato serviva più del futuro a costruire identità. - Novecento
Il Futurismo fu l’unico vero movimento rivolto al futuro, ma si bruciò nella retorica nazionalista e nel fascismo. La narrativa italiana del dopoguerra scelse invece il neorealismo, orientato alla memoria e alla testimonianza. Solo figure isolate (Primo Levi, Calvino, Aldani, Evangelisti) tentarono incursioni nel futuro. - Contemporaneo
Oggi la fantascienza, l’esoterismo, la documentaristica e la divulgazione scientifica restano settori marginali, mentre altrove sono diventati strumenti centrali di soft power culturale.
Forse è qui la radice del nostro limite: la lunga influenza della Chiesa Romana ha addestrato l’Italia a custodire il passato più che a inventare il futuro. Così, dai roghi di Bruno fino alle reticenze della divulgazione contemporanea, il nuovo è sempre apparso sospetto. Ma riconoscere questa eredità significa anche poterla superare: liberare l’immaginazione come atto culturale, non più marginale, ma necessario.
Studi e riferimenti critici
Fantascienza italiana
- Brioni, S. & Comberiati, D. (2019). Italian Science Fiction: The Other in Literature and Film. Palgrave Macmillan.
→ Mostra come la fantascienza italiana sia rimasta marginale e spesso derivativa rispetto a quella anglosassone, più attenta a metafore ideologiche che a visioni di futuro. - Iannuzzi, G. (2014). Letteratura fantascientifica italiana. Carocci.
→ Conferma che il genere in Italia non ha mai avuto un riconoscimento canonico, a differenza di altri paesi dove la sci-fi è entrata nel cuore della produzione letteraria e culturale.
Esoterismo e immaginario
- Pezzini, F. (2012). Sotto il segno del drago: esoterismo e cultura popolare in Italia. Odoya.
→ Evidenzia come l’occulto e il mistico, entrati nel canone in Francia e Regno Unito, in Italia siano rimasti sotterranei, marginali o elitari, impedendo la nascita di una tradizione condivisa.
Documentaristica
- Fanchi, M. (2019). Il documentario italiano contemporaneo: tra memoria e identità.
→ Analizza come il documentario italiano sia rimasto prevalentemente didascalico e memoriale, privo della forza evocativa che caratterizza modelli internazionali (BBC, ARTE, Netflix). - Renov, M. (2004). The Subject of Documentary.
→ Riferimento comparativo che mostra come, a livello internazionale, il documentario sia diventato un linguaggio poetico ed estetico, e non soltanto un mezzo di istruzione.
Divulgazione scientifica
- Bucchi, M. (2016). Engaging Science: Thoughts, Deeds, Analysis and Action. Routledge.
→ Sottolinea come la comunicazione scientifica italiana resti accademica, chiusa e poco aperta alla narrazione o allo spettacolo, con difficoltà a sedurre e coinvolgere il grande pubblico. - Cooter, R. & Pumfrey, S. (1994). Separate Spheres and Public Places: Reflections on Science Popularization in Britain.
→ Utile come confronto: mostra come altrove la scienza abbia costruito un immaginario condiviso, mentre in Italia persiste la rigida separazione tra “sapere duro” e “sapere morbido”.
Antropologia applicata e media
- Favole, A. (2010). Antropologia applicata. Prospettive e campi di intervento. Laterza.
→ Definisce l’antropologia applicata come sapere operativo, capace di portare le chiavi interpretative dell’antropologia all’interno dei processi sociali, culturali e comunicativi. - Postill, J. & Peterson, M. (2009). Media Anthropology.
→ Mostra come i media contemporanei funzionino come generatori di miti e identità collettive, offrendo un quadro utile per leggere il cultural placement come pratica antropologica e strategia di costruzione dell’immaginario. - Rothenbuhler, E. (2005). Media Anthropology as Interdisciplinary Contact.
→ Sottolinea la necessità di un’interdisciplinarità attiva tra antropologia e comunicazione, capace non solo di descrivere ma di incidere sui processi sociali mediati. - Couldry, N. (2005). What Is the Point of Media Anthropology?.
→ Interpreta lo studio dei media come analisi delle pratiche simboliche e rituali che strutturano l’immaginario collettivo e ridefiniscono il concetto stesso di comunità. - De Kerckhove, D. (2025). L’uomo quantistico. Mente, società, democrazia: dove ci porterà la prossima rivoluzione digitale. Rai Libri.
→ Estende l’antropologia dei media al nuovo ecosistema cognitivo dell’intelligenza artificiale, analizzando come la rivoluzione digitale stia trasformando mente, società e democrazia. Propone una lettura “quantistica” del pensiero e della comunicazione, in cui tecnologia e coscienza si intrecciano come dimensioni complementari della stessa evoluzione culturale.
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