Manifesto ermetico per l’uso dell’AI

Sto scorrendo il programma del Hermopolis Symposium 2025 che si terrà a New Hermopolis, in Egitto. All’improvviso, lo sguardo si ferma sul titolo In the Garden of Thoth: Knowledge is Light. Ovviamente non posso avere ancora ascoltato quella relazione, perchè si terra fine Ottobre, eppure basta il suono di queste parole per ispirarmi la riflessione di oggi. Il titolo è un emblema più che un annuncio, che mi costringe a vedere il giardino di Thot come una metafora per l’attuale dibattito sulle intelligenze artificiali – o, come vuole dire qualcuno, sulle statistiche aumentate – e l’esercizio del “potere digitale”
Thot è il dio degli scribi. Patrono della scrittura e delle scienze esatte, inventore dei geroglifici, signore del tempo e del numero. Segretario del dio Ra, il Sole, conosce i segreti degli dèi e, per la sua sapienza anche i praticanti la medicina del tempo lo elessero loro protettore. Inventore dei geroglifici, signore del tempo e del numero, è lo scriba che rende il cosmo leggibile, e quindi vivibile. Quando, nei secoli, viene assimilato a Hermes Trismegisto, diventerà il simbolo del passaggio fra mondi: il mediatore che traduce l’invisibile in segni e i segni in senso.

Immaginare il giardino di Thoth è immaginare un hortus sapientiae, dove i semi sono lettere, i fiori sono i concetti, i frutti sono le intuizioni che illuminano.
Ma non basta raccogliere: occorre (sapere) coltivare.
Perchè qui la conoscenza non è deposito meccanico di segni: ma trasmutazione interiore.
La luce non coincide con la somma dei dati, ma con la loro metamorfosi in consapevolezza.
Per chi lavora sull’educazione, questo giardino può essere letto come metafora di uno spazio generativo: un luogo formante dove più agenti e più linguaggi cooperano (umani, macchine, contesti) e il sapere nasce da relazioni incarnate. Un ambiente multiagente e cognitivo in cui i segni non si depositano, ma si trasformano in gesto, comprensione, opera.
Qui l’AI semina varianti; solo la nostra ermeneutica potrà coltivarle fino a farle maturare in luce.
A riguardo suggerisco la lettura di Maria D’Ambrosio, “Verso lo spazio formante: intercodice multiagente autonomo. Progettare ambienti di apprendimento generativi” (MeTis, 2016), e “Dall’osservazione della materia vivente all’esplorazione dello spazio educativo tridimensionale, multiagente e cognitivo” (Pensa MultiMedia, 2012).
Scribi antichi e scribi digitali
Gli scribi antichi non erano sempre sovrani, ma costituivano l’ossatura del potere. Detenevano il monopolio della lettura e della scrittura, governavano contabilità e catasti, leggi ed editti, corrispondenza e archivi. In breve, custodivano la memoria ufficiale su cui si reggeva lo Stato. Chi controllava registri, sigilli e protocolli decideva cosa esistesse agli occhi del potere. Ma il loro sapere non era solo tecnica: era inscritto in un ordine sacro. Thot, dio della scrittura, garantiva che la parola e il numero fossero strumenti di equilibrio cosmico. Lo scriba era un servitore, non un creatore di dèi.
Oggi lo scenario si è capovolto. Gli scribi digitali non coincidono con il sovrano, ma ne orientano le mosse. Sono programmatori, data engineer, architetti di piattaforme, amministratori di sistemi, team di policy e di prodotto. Progettano protocolli e default, stabiliscono formati e interfacce, amministrano archivi e modelli. Scrivono le leggi invisibili che regolano il comportamento: il codice. Ma qui non si tratta più di servire un dio. È il codice stesso a diventare divinità secolare. Sono gli scribi moderni a fabbricare i simulacri che poi tutti adoriamo: l’algoritmo, la piattaforma, il modello predittivo, eretti a oracoli quotidiani.
Possiamo chiamare questo insieme potere di protocollo, potere di default, potere d’archivio, potere di interfaccia.
Il primo decide la grammatica delle azioni, quando una piattaforma modifica le API e restringe ciò che gli sviluppatori possono fare.
Il secondo orienta senza farsi notare, come una spunta privacy preimpostata che espone più del necessario.
Il terzo stabilisce che cosa ricordare e che cosa dimenticare, come un dataset che include o esclude intere realtà.
Il quarto determina la visibilità, come un ranking che rende presente o invisibile un contenuto. Qui operano i tecnologi scribi, cancelleria del mondo connesso che non serve una divinità, ma ne crea di nuove.
Gli scribi antichi erano custodi di un sapere che riconosceva un dio sopra di loro.
Gli scribi digitali, invece, non servono un dio: lo producono. Nel codice e negli algoritmi innalzano nuovi simulacri, divinità tecniche a cui la società contemporanea affida la propria vita quotidiana, con la stessa devozione con cui un tempo si guardava a Thot. Gli studi di scienza politica e sociologia della tecnologia ci ricordano che chi controlla protocolli, classificazioni e interfacce decide ciò che appare e ciò che resta invisibile. Non si tratta di strumenti neutrali: ogni architettura digitale è anche un atto di potere. James C. Scott mette in guardia dal rischio delle semplificazioni tecnocratiche che ignorano la complessità della vita reale. Lawrence Lessig ci mostra come il codice sia la vera legge del cyberspazio. Langdon Winner ci ricorda che gli artefatti hanno una politica incorporata nella loro stessa progettazione. Geoffrey Bowker e Susan Leigh Star rivelano che le classificazioni plasmano inclusione ed esclusione. Tarleton Gillespie mostra come le piattaforme agiscano da custodi della sfera pubblica. Shoshana Zuboff denuncia il capitalismo della sorveglianza che trasforma l’esperienza umana in materia prima. Dalle loro voci emerge un filo comune: le tecnologie non sono mai neutrali. Abitare il digitale significa abitare un campo di forze politiche, economiche e sociali inscritte nelle architetture che usiamo ogni giorno. La sfida è rendere visibili questi poteri nascosti, per riportare trasparenza, pluralismo e democrazia in uno spazio che rischia di essere governato da logiche opache, tecnocratiche e oligopolistiche.
Ecco qualche riferimento su Scribi e tecnologie del potere:
- James C. Scott, Seeing Like a State (Yale University Press, 1998).
Scott dimostra che i grandi progetti statali di ordine e razionalizzazione, dalle città pianificate all’agricoltura industriale, spesso falliscono perché impongono schemi semplificati che ignorano la complessità delle pratiche locali. Questa “visione dall’alto” produce conseguenze autoritarie e talvolta disastrose, mentre la resilienza nasce dalla conoscenza situata, dal sapere pratico e dal pluralismo. Il libro mette in guardia dai rischi di un eccesso di semplificazione tecnocratica. - Lawrence Lessig, Code (Basic Books, 1999/2006).
Lessig ci dice che nel cyberspazio il vero regolatore non è solo la legge, ma soprattutto il codice: l’architettura del software determina cosa è possibile o impossibile fare online. Il codice funziona come una legge invisibile, plasmando libertà e vincoli degli utenti più delle norme giuridiche tradizionali. Per questo invita a una consapevolezza politica: decidere chi scrive il codice significa decidere chi governa lo spazio digitale. - Langdon Winner, “Do Artifacts Have Politics?” (Daedalus, 1980).
Winner sostiene che le tecnologie non siano mai neutrali: alcune hanno un contenuto politico intrinseco, perché incorporano scelte di potere e valori che condizionano la società. Non si tratta solo di come le usiamo, ma del fatto che la loro stessa progettazione può favorire certi assetti sociali e limitarne altri. In questo senso, gli artefatti fanno politica perché partecipano attivamente alla distribuzione del potere e alla forma della vita collettiva. - Geoffrey C. Bowker & Susan Leigh Star, Sorting Things Out (MIT Press, 1999).
Bowker e Star mostrano che i sistemi di classificazione e gli standard non sono strumenti neutri, ma infrastrutture invisibili che modellano la vita sociale. Decidere come ordinare e nominare significa stabilire chi conta e chi resta ai margini, con conseguenze concrete su potere, inclusione ed esclusione. Il libro ci invita a rendere visibili questi processi e a riconoscere che ogni classificazione è anche un atto politico - Tarleton Gillespie, Custodians of the Internet (Yale, 2018).
Gillespie dichiara che le piattaforme digitali non sono spazi neutri, ma agiscono come veri e propri custodi dell’informazione, decidendo cosa resta visibile e cosa viene rimosso. La moderazione dei contenuti, spesso invisibile agli utenti, è un potere enorme che plasma la sfera pubblica e i confini della libertà di espressione. Il libro invita a riconoscere la responsabilità politica e sociale di queste scelte, perché la governance del discorso online non può più restare nelle mani di pochi attori privati senza trasparenza né controllo democratico. - Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism (PublicAffairs, 2019).
L’autrice conclude che il capitalismo della sorveglianza non è una semplice evoluzione tecnologica, ma un nuovo regime economico che trasforma la nostra esperienza quotidiana in materia prima da cui estrarre valore. Questo modello concentra conoscenza e potere in poche mani, riducendo libertà e autonomia individuale, fino a minacciare la stessa democrazia. Come il capitalismo industriale ha devastato la natura, così il capitalismo della sorveglianza rischia di compromettere la nostra umanità: sta a noi, come cittadini, riconoscerlo e opporvi resistenza per difendere un futuro autenticamente umano.
Il presente incalza. Abbiamo strumenti potentissimi, l’AI ci spalanca un oceano di testi, immagini, sintesi.
Un giardino sterminato, sì, ma che si potrebbe affollare di piantine tutte uguali. Il rischio è credere che l’accesso al dato coincida con la conoscenza. Non è così. Il dato è ombra. La conoscenza quando ci trasforma, allora è luce.
I giardinieri siamo noi: con i nostri strumenti, le esitazioni, le domande che non possiamo delegare a nessuna macchina.
Qui entra Hermes, cioè l’ermeneutica. Tocca a noi esercitarla: non solo per dialogare con la macchina, ma per contrastare l’analfabetismo funzionale che segna la nostra epoca.
L’AI restituisce segni ben impaginati; se però manca la capacità di interpretarli, di trasmutarli in coscienza, restiamo prigionieri di ombre lucide. L’ermeneutica smette di essere un lusso erudito: diventa un atto civile, un’educazione alla libertà del pensiero.
Il compito ermetico del nostro tempo non è diverso da quello degli antichi scribi: distinguere tra segno e senso, tra informazione e sapienza. L’AI non è un oracolo; è uno specchio. Può amplificare ciò che cerchiamo, ma non garantisce il significato di ciò che troviamo. Come ogni messaggero mercuriale, porta parole che chiedono un lettore responsabile. È nel lavoro interpretativo che nasce il terzo integrato: lo spazio in cui algoritmi e coscienza, dati e intuizioni, smettono di fronteggiarsi e iniziano a trasformarsi a vicenda.
Platone, nel Fedro, avvertiva che la scrittura può “dare apparenza di sapienza, non la sapienza stessa” (Fedro, 274e–275b). L’AI rischia lo stesso splendore ingannevole: superfici perfette, se nessuno le misura. E la misura non è la quantità di output, ma la leggerezza del cuore che portiamo alla verifica. Nel Libro dei Morti, Anubi pesa il cuore e Thoth ne registra l’esito davanti a Osiride; non è l’archivio che lo circonda a essere giudicato. Così dovremmo giudicare l’uso dell’AI: non per quanto produce, ma per quanto illumina.
Il giardino di Thot, allora, non è un’archeologia del sacro: è una bussola operativa. Invita a non smarrirsi nella proliferazione delle ombre, a coltivare un sapere che diventi luce, che trasformi l’informazione in esperienza interiore, che restituisca all’AI il posto giusto: non simulacro che parla al posto nostro, ma strumento di umanizzazione. Perché la conoscenza non si misura dal possesso dei segni, bensì dalla capacità di farne frutto vivo: nutrimento dell’anima, ethos della responsabilità, armonia (fragile !?) tra noi e il mondo.
Forse Thoth non è mai stato solo lo scriba degli dei.
È l’ombra che accompagna ogni gesto interpretativo, il silenzio che si fa parola, la luce che si cela nei segni.
Chi oggi sa coltivare l’arte ermeneutica con consapevolezza non fa che seguirne le orme: accendere varchi di senso, senza mai imprigionare il mistero.
E quando, tra qualche settimana, a New Hermopolis si aprirà davvero quella sessione dal titolo folgorante, il giardino sarà lì per tutti.
Ma crescere, fiorire, fare luce: questo resterà sempre compito nostro.
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