Il potere, la bacchetta e la postura del leader

nella Leadership Situazionale

Ispirato all’articolo “Non esistono bene e male. Solo il potere” di Giorgia Dublino

Ci sono frasi che funzionano come specchi: riflettono non ciò che siamo, ma ciò che rischiamo di diventare. Una di queste l’ha pronunciata Lord Voldemort, ed è rimbalzata fuori dal fantasy per insinuarsi nella nostra realtà quotidiana: Non esistono bene e male. Solo il potere.”

A pronunciarla è l’antagonista di Harry Potter, Lord Voldemort. Ma, come riflette mia figlia, a pensarla, spesso, è chi sta in una riunione condominiale, in una classe scolastica, in un comitato o dietro una tastiera. È il sottotesto di ogni gesto in cui il fine diventa più importante del legame, in cui si lotta non per costruire, ma per segnare il territorio. È la microfisica del potere, come direbbe Foucault. O il campo sociale, per Bourdieu: quel sistema invisibile dove ogni posizione è relazione, e ogni gesto è una partita.

Mi sono chiesto: che cosa significa, oggi, essere leader in un mondo in cui anche il potere si è smaterializzato, diventando influenza, percezione, attitudine?
Dove ogni parola può diventare trappola, e ogni silenzio può essere interpretato come cedimento?

È in questo contesto che riscopro il valore della leadership situazionale, non come tecnica di comando, ma come arte della coesistenza.

Inizio da una scena. Una qualsiasi.

Un gruppo decide un’attività. Una parte propone, l’altra si irrigidisce. La discussione si sposta su dettagli insignificanti: orari, modulistica, merendine. Ma sotto, pulsa qualcos’altro. Non è logistica: è posizionamento. È desiderio di visibilità, bisogno di contare. È un campo che si attiva. E ogni atto, ogni parola, ogni assenza, prende significato in base a chi l’ha detta, quando, e con quale reputazione.

È lì che nasce la tensione: non tra idee diverse, ma tra statuti simbolici.

La leadership, in questo contesto, non è chi urla di più. È chi riesce a tenere insieme. A decifrare il gioco senza smascherarlo. A proteggere il gruppo, anche a costo di rinunciare a se stesso. Come dice il modello di Hersey e Blanchard, il leader efficace è colui che sa adattarsi al livello di maturità del gruppo. Ma in realtà, nel nostro tempo ipercomplesso, non basta più adattarsi: serve intuire, ascoltare il non detto, riconoscere l’ombra


Il modello sviluppato negli anni ’70 da Paul Hersey e Ken Blanchard, nasce da un’intuizione semplice e profonda: non esiste uno stile di leadership efficace in assoluto. Esiste solo lo stile adatto a quel preciso momento, con quelle precise persone.
Hersey e Blanchard lo chiamano Situational Leadership Model.
Una mappa che si articola su due assi: il comportamento orientato al compito e quello orientato alla relazione.
Ne derivano quattro modalità possibili di agire il potere:

  • S1: Directing
    quando chi abbiamo di fronte ha bisogno di indicazioni chiare, come in un primo passo incerto.
  • S2: Coaching
    quando serve accompagnare, spiegare, motivare, senza però sostituirsi.
  • S3: Supporting
    quando il gruppo è competente, ma ancora fragile, e il leader si fa spalla più che guida.
  • S4: Delegating
    quando si può (e si deve) lasciare il timone, senza smettere di esserci.

Ma il punto, ancora una volta, non è lo stile. È la lettura del contesto.
Ogni individuo, ogni gruppo, si colloca in un certo livello di maturità:
ci sono quelli insicuri e inesperti (M1), quelli entusiasti ma fragili (M2), quelli capaci ma dubbiosi (M3), e infine quelli autonomi, solidi, pronti alla responsabilità (M4).
Il leader non giudica, ma riconosce. Non impone, ma sintonizza.Non si tratta di gestire risorse, ma di nutrire possibilità

Il che conduce a diversi livello di sviluppo
Ogni persona, in un processo di crescita o in un gruppo, non è solo ciò che sa fare, ma anche con quanta energia e convinzione si muove. Blanchard descrive quattro livelli di sviluppo, basati sulla combinazione tra competenza e impegno:

  • D1 – Inizio entusiasta
    Bassa competenza, alta motivazione. Il classico “primo giorno” con tanto slancio e poca esperienza.
  • D2 – Disillusione iniziale
    Bassa competenza, bassa motivazione. L’entusiasmo cala, la fatica si fa sentire. Il rischio di rinuncia è alto.
  • D3 – Crisi di fiducia
    Alta competenza, motivazione incostante. Chi sa fare ma ha perso fiducia. Ha bisogno di riconoscimento, non di istruzioni.
  • D4 – Autonomia piena
    Alta competenza, alta motivazione. Qui il leader può fare un passo indietro. È il momento della delega

Comprendere questi livelli aiuta a calibrare il tipo di guida necessaria. Perchè non si guida un gruppo, si accompagnano le persone


Qui che il modello si apre a una lettura più profonda, quasi simbolica.
Nel ciclo della leadership, il leader attraversa quattro fasi: dirige, persuade, partecipa, delega. Ma la vera sfida non è passare da uno stile all’altro: è comprendere in quale fase si trova la relazione. È leggere i segnali che arrivano prima del conflitto, prima della frattura.

In questo, il contributo di Bourdieu diventa essenziale: ci ricorda che ogni gruppo ha una sua logica implicita, un habitus, un insieme di regole tacite che definiscono ciò che è legittimo, autorevole, accettabile. E chi vuole guidare, non può farlo da fuori: deve entrare in quel mondo, rispettarne le leggi, senza esserne dominato.

Allo stesso tempo, le ricerche di Blanchard e Zigarmi dimostrano che il vero cambiamento si ottiene solo quando il leader è percepito come credibile e coerente.Non basta la competenza: serve fiducia, serve esempio.

In altri termini: la leadership è un atto di presenza simbolica. È sapere quando cedere, quando parlare, quando lasciare spazio. È accettare che in certi momenti, guidare significa tacere. E che a volte, il gesto più forte è non esercitare il potere, pur potendolo fare.

 Un potere che si traveste

C’è un potere che si annuncia, e un potere che si insinua. Il primo si mostra. Il secondo si maschera da ironia, da suggerimento, da para-buon-senso. È quello che rema storto, che propone iniziative a orologeria, che mina il consenso con un sorriso.

In questi casi, la leadership situazionale si misura nella capacità di non rispondere colpo su colpo, ma di cambiare la cornice. Di trasformare una battaglia in un dialogo, un attacco in una domanda. Di spegnere il rumore, non di alimentarlo.

Perché, come mostrano anche gli studi critici (Vecchio, 1987), la leadership non è mai un semplice adattamento meccanico. È un atto relazionale e narrativo. È saper leggere il contesto come un testo.

La magia vera

Ed è qui che torniamo a Voldemort.
Il potere, diceva, è. Senza giustificazioni, senza morale.

Ma la leadership situazionale risponde con un altro paradigma: il potere è anche responsabilità. È bacchetta, sì, ma carica di conseguenze. È capacità di tenere insieme, di evitare che il gruppo si sfaldi, che la conversazione degeneri, che la sfiducia si insinui.

Chi guida davvero, sa quando fare un passo indietro. Sa che il bene e il male esistono nel modo in cui trattiamo gli altri quando potremmo prevalere. Sa che lasciare correre, a volte, è più forte che imporsi.

Non c’è bisogno di Hogwarts per fare magia.
Basta scegliere, ogni giorno, di non usare il potere per il potere. Anche se nessuno lo noterà. Anche se gli altri penseranno che hai perso. Tu saprai di aver scelto il bene possibile.


Per chi desidera approfondire…
Se il potere si misura anche nella capacità di leggere il contesto, allora vale la pena dare uno sguardo più ravvicinato ai modelli teorici che hanno cercato di mappare questa relazione sottile tra guida e ascolto.
Qui sotto, una sintesi dei principali riferimenti concettuali: tra psicologia organizzativa, teoria del campo sociale e leadership evolutiva.


La leadership situazionale non è un algoritmo da applicare. È un’arte del discernimento. Una pedagogia delle relazioni. Un atto etico che resiste alla tentazione di imporsi e sceglie di servire il gruppo, anche nel silenzio.
Anche quando sembra non servire a nulla. Anche quando il mondo intorno sembra ripetere, ogni giorno un po’ di più, quella frase pericolosa:
“Non esistono bene e male. Solo il potere.”
La risposta è:
Esistono. Ma si vedono solo quando scegliamo di non esercitare il potere che abbiamo.

E questa è l’unica vera leadership. Quella invisibile. Quella che tiene insieme.
Quella che dura.


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