L’ambiguità è potere: Sun Tzu, Trump e l’arte di dominare il campo senza combattere

Sun Tzu scrisse L’arte della guerra più di duemila anni fa.
Trump ha twittato la sua nel XXI secolo.
Eppure, entrambi sembrano muoversi sulla stessa scacchiera invisibile: quella dell’ambiguità come arma.
Una lezione antica, tornata attualissima.
Perché spesso, la mossa vincente è quella che confonde.


Chi era davvero Sun Tzu?
Non ne conserviamo ritratti, statue, né discendenti illustri. Solo un nome. Solo parole.
Qualcuno lo descrive come un generale, altri come un consigliere nomade, vagante tra i principati della Cina antica durante l’epoca delle Primavere e Autunni, un tempo di guerre intestine, alleanze fragili e potere in frammenti.

Eppure, quelle parole, conservate su pergamene e rotoli di seta, hanno attraversato i secoli con la forza delle leggi naturali.
Il suo L’Arte della guerra non è solo un manuale militare.
È un trattato sulla percezione.
Un libretto d’istruzioni su come indurre l’altro a muoversi senza mai spingerlo.
Vincere senza colpire, dominare senza apparire, controllare senza esporsi.

Una grammatica della manipolazione elegante e invisibile.

“La suprema arte della guerra è sottomettere il nemico senza combattere.”

Ed è in questa logica dell’invisibile che Sun Tzu, sorprendentemente, incontra Donald Trump.
Non per affinità culturale. Ma per affinità di metodo.
Uno scriveva a pennello. L’altro digita in lettere maiuscole.
Eppure entrambi giocano sulla stessa scacchiera: quella dell’ambiguità come potere.

Trump non ha mai citato Sun Tzu, ma ne incarna il principio chiave:
Non dire. Confondere. Costringere l’altro a reagire fuori equilibrio.
Ambiguità cercata, imprevedibilità usata come leva, distorsione della realtà come strumento.

Sun Tzu, se potesse, probabilmente annuirebbe, forse non pensando sia pazzo
Vediamo come si specchiano, su tre mosse.
“Quando sei in grado, fingi incapacità. Quando attivo, fingi inattività. Quando sei vicino, sembri lontano. Quando sei lontano, sembri vicino.”
(Sun Tzu)

Trump, nei negoziati con la Corea del Nord, ha alternato minacce da apocalisse nucleare a incontri cordiali con Kim Jong-un.
Con la Cina, ha usato dazi violenti e tregue improvvise, facendo oscillare i mercati mondiali con una manciata di tweet.
Non è confusione. È strategia cognitiva: creare instabilità percettiva.
L’avversario non può pianificare se non sa mai da dove arriverà il colpo.
Trump non si muove: ti fa muovere.


“Offri all’avversario un’esca per attirarlo. Simula il caos, e colpiscilo quando si scopre.”
(Sun Tzu)

Trump lancia dichiarazioni esplosive su immigrazione, frodi elettorali, deep state.
Non importa se siano vere, mezze vere, o totalmente false.
I media si infiammano. Gli avversari rispondono indignati. L’opinione pubblica si polarizza.
Intanto, l’azione vera avviene altrove: nei tribunali, nei boardroom, nei comizi dove si cementano i consensi.
La trappola è servita. L’ambiguità funziona da fumo.
Mentre si guarda il dito, lui sposta la luna.


“Se il nemico è collerico, irritalo. Se è arrogante, alimenta la sua vanità. Se è ordinato, disturbalo.”
(Sun Tzu)

Trump è un maestro dell’irritazione strategica.
I suoi bersagli: Biden, Merkel, Pelosi, Zelensky, Trudeau.
Li ridicolizza, li provoca, li stuzzica pubblicamente.
Non per argomentare. Ma per farli reagire emotivamente.
Perché chi si difende sul piano dell’offesa personale, ha già perso il controllo del piano strategico.

Questa non è solo guerra. È soft power al tempo delle piattaforme.
Sun Tzu, nel V secolo a.C., già usava le parole come armi invisibili.
Trump, nel XXI, le ha trasformate in meme, slogan, hashtag.
Non ha vinto solo elezioni: ha trasformato la percezione della realtà.
Ogni frase ambigua, ogni attacco mai spiegato, ogni improvvisa marcia indietro,
non sono errori: sono frammenti di un metodo.
Un metodo antico quanto la guerra.
Solo aggiornato alla velocità dell’algoritmo.


In parole povere, Sun Tzu sosteneva che l’arma più potente fosse l’ambiguità.
Trump, senza citarlo, ne ha fatto una bandiera. Confondere. Provocare. Spostare l’attenzione. Dominare il campo senza combattere davvero.
Ecco perché, più che sul terreno o nei sondaggi, la guerra si combatte nella mente di chi guarda e ascolta. Lì si vince. O si perde. Senza mai sparare un colpo.


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