Allenare la mente, all’alba degli anni di vita che restano

Piccola anatomia della vecchiaia – Episodio 1


È il tempo della mente. Non perché il corpo abbia ceduto, ma perché ha passato il testimone. È il tempo in cui il gesto non si misura più in metri percorsi o pesi sollevati, ma nella fedeltà a un ritmo interiore. Dove un pensiero scritto all’alba vale quanto una vasca percorsa al buio. Non c’è pubblico, non c’è cronometro. Ma c’è la stessa chiamata. Quella che un tempo mi svegliava per tuffarmi nell’acqua fredda, oggi mi invita al silenzio della pagina bianca. È ancora allenamento. Solo che ora, invece dei muscoli, è la coscienza a voler restare in forma.


C’è una soglia invisibile tra il pensare e l’agire. Un punto di frizione. Una nebbia sottile che spesso ci trattiene. Non per mancanza di volontà, ma perché ci affidiamo a un alleato inaffidabile: la motivazione.
Chi ha letto il mio pezzo sulla procrastinazione sa bene quanto possa essere subdolo lo sperare di “sentirsi ispirati”.
È come voler salpare solo se il vento è favorevole: romantico, certo. Ma non funziona.

Eppure, esiste un sapere silenzioso che il corpo può insegnare alla mente.
Io l’ho imparato da bambino, prima ancora di saperlo spiegare. Per circa dieci anni, dalla terza elementare alla maturità scientifica, mi sono svegliato ogni mattina all’alba per allenarmi, nell’acqua fredda di una piscina prima di andare a scuola.
Sono stato atleta della nazionale per 15 anni, ma quei primi dieci sono stati i più formativi. Non mi chiedevo se avessi voglia. Non c’era da decidere. Perché la decisione era già stata presa. Quel gesto quotidiano non era sostenuto dalla motivazione, ma da una struttura.
Il luogo era deciso. L’ora era fissata. Il corpo sapeva già cosa fare.

Oggi so che quel sapere ha un nome: intenzione di implementazione.
Ho scoperto che, nel 2002, tre ricercatori britannici, Milne, Orbell e Sheeran,  dimostrarono con un esperimento che basta una semplice frase ben formulata per cambiare il comportamento.
Non “vorrei allenarmi”, ma: “Durante la prossima settimana farò esercizio il martedì e il giovedì alle 7:30 nel parco sotto casa.” Il risultato? Nel gruppo che ha scritto quell’intenzione concreta, il 91% ha mantenuto l’impegno. Contro il 35% dei gruppi che si erano affidati alla sola motivazione. Lo sportivo questo lo sa. Non perché l’ha letto, ma perché lo incarna. Non si tratta solo di disciplina. Si tratta di aver già spostato il centro di controllo: dal desiderio al contesto, dal sentimento al rituale, dalla volontà astratta alla decisione concreta.

È ciò che nella psicologia si chiama locus of control interno. È ciò che, in un altro mio articolo, ho descritto come il passaggio da spettatore a protagonista.
L’azione non è più negoziata ogni volta. È stata programmata. Non da un algoritmo, ma da noi stessi. Lo sport, in questo senso, è molto più di un’attività fisica: è un’educazione alla scelta.

“La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme

Ed è bello, oggi, poter dire che anche la Costituzione italiana ha deciso di riconoscerlo.
Il 20 settembre 2023 è stato approvato in via definitiva il nuovo testo dell’articolo 33 della Costituzione: non è solo una frase. È un cambio di paradigma. Per la prima volta, lo sport non è più un lusso, né un’appendice. Diventa un diritto. Un pilastro educativo. Un veicolo di cittadinanza attiva. Un ambiente in cui si costruisce, anche inconsapevolmente, quella intenzione implementativa che rende gli obiettivi possibili, le abitudini sostenibili, il benessere concreto.

Quando la Repubblica riconosce il valore sociale dello sport, ci invita a pensarlo anche così: come strumento di autoformazione. Lo sportivo non si affida all’umore del giorno. Si affida a una decisione. E quando quella decisione è ripetuta, organizzata e concreta, diventa parte di sé. Allo stesso modo, ogni cittadino può trasformare un proposito in azione.
Non serve l’eroismo. Serve il metodo.

“Io [azione] il [giorno] alle [ora] in [luogo]. Se succede [ostacolo], allora farò [alternativa].”

Questa è la struttura. Semplice, potente, replicabile. E può valere per tutto: per studiare e scrivere, per leggere e riflettere, per camminare, per telefonare a un amico, per iniziare a prendersi cura di sé.
La motivazione va e viene. Ma la scelta, quando è già stata fatta, ci libera.

E se oggi alcuni amici mi dileggiano perché scrivo molto, troppo perché riempio il mio blog di riflessioni, analisi, racconti, come se fossi affetto da una sindrome compulsiva.
Io sorrido. Perché so da dove viene questo gesto quotidiano. Non è una stravaganza. È la prosecuzione, con altri strumenti, di quella stessa forma mentis che mi portava in vasca prima ancora che sorgesse il sole.
Oggi ho 64 anni. Non alleno più il fisico come allora. Ma alleno la mente. Con la stessa determinazione, con la stessa fedeltà al gesto, con la stessa disciplina silenziosa. Perché alla fine non si tratta di fare di più.
Si tratta solo di continuare a scegliere. Anche quando nessuno ti guarda. Anche quando nessuno applaude. E forse soprattutto allora.


Questo testo è il primo episodio di “Piccola anatomia della vecchiaia” come lavoro mentale e identitario.
Il secondo è: Quando invecchiano i personaggi

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