«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…»
– Articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana
Ho appena terminato di guardare questo servizio speciale di Sky TG24 sul “riarmo made in Italy”. Un viaggio elegante, persino patinato, dentro l’industria nazionale della difesa.
Non un’inchiesta, non una critica, non una domanda scomoda.
Solo orgoglio tecnologico, narrazione industriale e un sottotesto chiarissimo: prepariamoci, stiamo facendo le cose sul serio. Mi chiedo allora: quando esattamente la comunicazione ha smesso di informare e ha iniziato a normalizzare il riarmo? Quando i servizi giornalistici sono diventati contenuti istituzionali travestiti da informazione, progettati non per stimolare il dibattito, ma per scolpire consensi silenziosi? Non è una denuncia ideologica. È uno sconcerto civile. Perché se oggi i media cominciano a raccontarci con fierezza come ci stiamo preparando alla guerra, senza mai chiederci se davvero dovremmo, allora è il segnale che qualcosa si è rotto. O forse: si sta ricomponendo sotto nuove forme, con vecchie logiche. E la guerra, quella parola che nessuno osa(va) più dire, torna ad abitare tra le righe, tra le immagini, tra le cifre dei contratti di fornitura. E allora sì, questa Sociologia della guerra di Lars Bo Kaspersen non arriva per caso tra le mie mani. Perché mentre leggiamo di “innovazione difensiva”, di “sistemi integrati”, di “orgoglio italiano”, ci dimentichiamo una cosa: ogni volta che lo Stato prepara la guerra, sta preparando anche una nuova forma di società.
Quando la guerra non è un’eccezione: sociologia, identità e la follia che avanza in Europa
Immagina di osservare il mondo non da un punto fermo, ma da una prospettiva che si muove insieme ai conflitti.
Non è la pace a disegnare i contorni delle società, ma la guerra: non come parentesi, ma come regola.
È questa la provocazione teorica, e allo stesso tempo la constatazione storica, che attraversa il saggio di Lars Bo Kaspersen, professore a Copenaghen, dedicato alla Sociologia della guerra. Un testo che non invita alla celebrazione del conflitto, ma alla sua comprensione: profonda, relazionale, strutturale.
Per troppo tempo, la sociologia ha evitato la guerra, quasi fosse un evento accidentale, una deviazione patologica rispetto alla linearità del progresso. Il liberalismo prometteva un mondo pacificato dalla divisione del lavoro e dalla cooperazione internazionale. Il marxismo prefigurava la fine dei conflitti nella società senza classi. Ma la storia – concreta, brutale, disobbediente – ha continuato a ricordarci che la violenza organizzata non è un relitto del passato, ma una componente ricorrente della modernità.
Kaspersen, raccogliendo l’eredità di Norbert Elias, ci offre una chiave di lettura tanto semplice quanto radicale: ogni collettività politica – tribù, città, stato – nasce e si rafforza nel confronto con un’altra. Sono “unità di sopravvivenza” che si definiscono nella lotta per il riconoscimento.
Proprio come l’individuo, secondo Hegel, diventa sé stesso solo se riconosciuto da un altro, così anche gli stati esistono nella misura in cui sono parte di una relazione interstatale. E quando la parola non basta, quando il riconoscimento si fa conteso, entra in scena la guerra. Non come patologia, ma come linguaggio estremo dell’identità.
La guerra, dunque, non è puro caos. È azione sociale. Ha regole implicite, attori, logiche. Clausewitz lo aveva capito: la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi.
E in quanto politica, ha scopi, strumenti, strategia. Non è solo scontro fisico, ma costruzione simbolica e trasformazione strutturale. È attraverso la guerra che gli stati si rafforzano, che la società si riorganizza, che nuove istituzioni emergono.
Lo sapeva Charles Tilly: “War makes states, and states make war”.
Michael Mann porta questa intuizione più in là: lo Stato ha un potere autonomo, distinto dalla società civile, che si sviluppa dentro un reticolo di forze economiche, ideologiche, politiche e militari.
La guerra, in questo quadro, non è solo reazione a un’aggressione: è strumento attivo di trasformazione.
E anche quando non esplode, anche quando rimane latente, la sua presenza costringe ogni unità politica a ridefinirsi, ad armarsi, a strutturarsi.
È ciò che accade oggi in Europa. Dopo aver vissuto decenni nella convinzione che la guerra fosse relegata ad altri continenti, assistiamo a un cambio di paradigma: la guerra non è più un’ipotesi lontana, ma una possibilità concreta.
Si richiama la leva, si discute di eserciti comuni, si investe nella produzione bellica, si teorizza una “mobilitazione civile” in caso di conflitto.
Eppure, tutto questo avviene con una rimozione linguistica quasi grottesca: la guerra non si nomina: la si prepara, continuando a parlare di “difesa”, “resilienza”, “deterrenza”.
Come se fosse sufficiente non pronunciare il nome di una minaccia per renderla meno reale.
Ma la realtà, ancora una volta, si incarica di smentire le illusioni. Perché mentre l’Europa si riarma, il rischio vero non è solo l’eventualità di uno scontro armato.
È la trasformazione silenziosa dell’ordine interno, il modo in cui lo spettro della guerra riscrive il rapporto tra stato e cittadino. La logica dell’“unità di sopravvivenza”, quella che impone coesione, obbedienza, centralizzazione, torna a farsi dominante.
Si chiede disciplina, si riduce il dissenso, si sacrificano risorse civili sull’altare della “sicurezza”. Il tutto in nome di una pace che assomiglia sempre più a una tregua armata.
In questo contesto, il concetto schmittiano di pluriverso politico torna prepotente. Non esiste uno “Stato globale”, non esiste un’umanità unificata. Esistono amici e nemici. E la guerra è l’esito estremo, ma strutturale, di questa distinzione.
Finché esisterà il nemico, la guerra resterà possibile. Anzi, necessaria.
La sociologia della guerra, allora, non ci dice solo perché si combatte. Ci mostra come la guerra modella la società, e soprattutto quale società si costruisce mentre ci si prepara alla guerra. Anche quando la violenza non esplode, anche quando resta virtuale, come spiega Boserup, essa agisce come fattore ordinatore: ridisegna priorità, istituzioni, identità collettive.
È questo che dovremmo guardare con lucidità: il rischio di una “normalizzazione bellica” che agisce già nelle nostre democrazie.
E la follia, oggi, non è tanto nella possibilità che scoppi un nuovo conflitto su larga scala, ma nel fatto che stiamo riorganizzando le nostre società su presupposti bellici senza nemmeno più interrogarci.
La pace, se vogliamo renderla reale, non può essere una tregua armata: deve diventare un progetto politico attivo, strutturale, costruito con la stessa intensità e serietà con cui si pianifica una guerra.
Ecco allora il compito che ci affida la sociologia della guerra: non ignorare la violenza organizzata, ma comprenderla, smascherarla, renderla visibile anche quando è vestita da ordine, da ragione di Stato, da difesa.
Perché se è vero che la guerra produce lo Stato, dobbiamo chiederci: quale Stato vogliamo, e a quale prezzo lo stiamo edificando?
Perché se è vero che la guerra produce lo Stato, dobbiamo chiederci: quale Stato vogliamo, e a quale prezzo lo stiamo edificando?
E tu, leggendo queste righe, dove ti collochi?
Cosa sei disposto a tollerare in nome della sicurezza?

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