C’è un momento, nell’ottava stagione di Homeland, in cui tutto sembra potersi sistemare.
I canali diplomatici sono aperti, le pedine sullo scacchiere si stanno muovendo, le condizioni per una storica pace tra gli Stati Uniti e i talebani sembrano finalmente maturare.
E invece, tutto implode.
Ma non per colpa dei talebani. Né dei servizi segreti. Né delle alleanze ambigue.
Implode per l’ego e l’incompetenza.
Il Presidente Hayes, personaggio tanto inconsapevole quanto può essere influente il leader più importante del mondo libero, è la perfetta incarnazione di una leadership pericolosa, non sempre per malafede (concediamo pure il beneficio dell’inventario), ma spesso per una profonda incapacità di comprendere la complessità del mondo che è chiamato a governare.
Affascinato dalle apparenze, suggestionato da consiglieri che sanno come parlargli ma non per dirgli la verità, Hayes è il paradigma del potere analfabeta funzionale: quello che ha accesso a tutte le informazioni, ma non sa come leggerle.
Quello che confonde sicurezza con forza, e forza con visibilità.
E lo spettatore, se appena un po’ allenato alla lettura politica, non può non rabbrividire.
Perché Homeland, come in un'altra stagione, non mette in scena una distopia. Mette in guardia.
La gestione dell’Afghanistan nel mondo reale – dal ritiro disastroso del 2021 fino al ritorno dei talebani, dai civili lasciati indietro ai dossier ignorati per anni – è l’eco fedele di ciò che la serie anticipava.
Decidere senza comprendere. Ordinare senza ascoltare. Esporsi senza sapere.
Il potere politico, in Homeland, è talvolta più destabilizzante dei gruppi armati che dovrebbe contenere. Perché confonde il consenso con la competenza. E nel mondo reale, questa confusione si paga.
L’incapacità del Presidente Hayes nella stagione 8 di Homeland diventa particolarmente evidente nell’Episodio 7, intitolato “Fucker Shot Me”. È qui che la sua incompetenza si manifesta in modo plateale, in un contesto ad altissima tensione: una crisi diplomatica e militare che richiederebbe lucidità, prontezza e comprensione del quadro geopolitico basata sulle informazioni raccolte dalla intellingence sul campo: che sfatano le trame di un complotto costruito ad arte.
Hayes, invece, si dimostra insicuro, manipolabile, incapace di valutare le conseguenze reali delle proprie scelte. Si affida ciecamente a consiglieri ideologicamente politicizzati ed intransigenti, guerrafondai, cercando soluzioni di facciata per proteggere la propria immagine, prendendo decisioni impulsive che mettono a rischio non solo le trattative di pace ma anche la vita di agenti sul campo.
La sua goffaggine è tale da costringere Saul a correre ai ripari e Carrie a valutare scelte sempre più borderline. È il punto di svolta in cui lo spettatore capisce che non si tratta più solo di errori: Hayes non è semplicemente mal consigliato. È il simbolo di un potere inadeguato.
La figura di Saul Berenson, lucido, prudente, esperto di geopolitica e, soprattutto, eticamente consapevole, si staglia come l’ultimo baluardo di una leadership razionale.
È uno di quei rari uomini di Stato capaci di leggere tra le righe, che conoscono il linguaggio cifrato della diplomazia: fatta più di omissioni che di verità, più di teatrini che di autentici tentativi di pace. Saul non serve l’ideale astratto di un mondo migliore.
Serve la realtà, nella sua complessità.
E lo fa consapevole che ogni parola, ogni silenzio, ogni firma su un trattato può generare onde ben oltre i confini di una nazione. Ma è costretto a operare in un sistema che lo soffoca, che premia la velocità sulla riflessione, il colpo di scena sul lavoro silenzioso, la forza percepita sull’intelligenza reale.
Carrie, l’agente sul campo, a sua volta, è sempre più disgustata dal teatrino del potere, inchiodata a una colpa che non le appartiene, incastrata negli ingranaggi di intrighi costruiti da altri.
Eppure è lei a pagarne il prezzo. Non perché ha sbagliato, ma perché ha visto troppo.
In un mondo dove chi dovrebbe proteggerla è troppo impegnato a salvare la propria immagine, Carrie è costretta a scegliere tra la fedeltà e la sopravvivenza, tra ciò che è giusto e ciò che è possibile. E lo fa, come sempre, senza garanzie. Solo con l’istinto di chi ha imparato che, quando la verità è scomoda, è sempre chi la dice a diventare il bersaglio.
Homeland racconta questo: l’incompetenza non è mai neutra.
È un acceleratore di crisi. Non è solo un limite personale, ma un errore sistemico.
Quando le cariche di vertice sono occupate da chi non ha gli strumenti per distinguere un’illusione da una minaccia, il mondo non si ferma. Comincia a tremare.
Oggi, mentre si moltiplicano i fronti aperti – Ucraina, Gaza, Mar Rosso, Sahel – la lezione dell’ultima stagione di Homeland è più attuale che mai.
Non bastano i dati, i report, le riunioni. Serve la capacità di comprenderli.
Serve il coraggio di farsi consigliare da chi sa, e non da chi adula.
Serve la lucidità di ammettere ciò che non si conosce, prima che sia troppo tardi.
Perché, come ci ricorda Homeland, anche la verità, nelle mani sbagliate, può diventare un’arma a doppio taglio.
E allora, forse, la domanda più inquietante è questa:
Quanti Presidenti Hayes governano oggi nel mondo reale?
E quanti Saul Berenson stanno ancora cercando di farli ragionare, sapendo che nessuno li ascolterà davvero?
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