a Napoli puoi sentirti “in periferia” pur camminando in Piazza del Plebiscito
Episodio 1 – Napoli, foresta antropologica
Dopo aver varcato la soglia simbolica di Napoli nel nostro Episodio 0, entriamo ora nella città viva. Non quella delle mappe, ma quella dei codici invisibili. Questo episodio esplora Napoli come una foresta antropologica: un ecosistema urbano fatto di periferie relazionali, microcosmi autonomi, e attriti culturali che generano identità. Qui, ogni quartiere è una radice, ogni gesto una lingua. E per orientarsi, serve più che una guida: serve ascolto.
Le periferie relazionali
Napoli non si lascia leggere in linea retta. Non si afferra con la sola topografia. A differenza di molte altre città, dove il centro e la periferia si dispongono come cerchi concentrici o assi radiali, Napoli presenta una struttura più simile a un rizoma.
Ogni suo quartiere contiene in sé un centro e una periferia, ogni isolato è un piccolo universo sociale, ogni condominio un caleidoscopio di differenze. Ecco perché parlare di periferia, a Napoli, non significa riferirsi necessariamente a un luogo geografico, ma a una condizione relazionale.
Napoli, così letta, non è solo uno spazio urbano, ma un organismo culturale rizomatico. Una città che contiene in sé le condizioni del dialogo e del conflitto, della contaminazione e della resistenza. E, come sottolinea la curatrice Matilde Callari Galli, l’antropologia urbana italiana ha imparato che «la città si costruisce nell’intreccio, nella sovrapposizione e nella lacerazione degli spazi vissuti»: ed è proprio lì che si elaborano «le identità collettive e di gruppo» (2007, p. 28).

Un’immagine straordinariamente viva e concreta di questa Napoli-mosaico la restituisce Dario David nel suo libro La vera storia del cranio di Pulcinella (2007), dove racconta la città come un laboratorio antropologico a cielo aperto.
Studiando i volti degli abitanti di alcuni quartieri storici come Forcella, la Sanità o i Quartieri Spagnoli, l’autore arriva a ipotizzare, con rigore critico e affettuosa ironia, che l’isolamento culturale e la forte coesione interna di questi microcosmi urbani abbiano prodotto, nel tempo, una certa somiglianza nei tratti somatici.
Non si tratta, naturalmente, di una teoria biologica né fisiognomica, ma di una metafora provocatoria sul modo in cui le culture, e i vissuti, possono, col tempo, plasmare non solo identità simboliche, ma perfino estetiche condivise.
È una riflessione sul radicamento e sull’autosegregazione, più che sui geni: sulla trasmissione endogamica di codici estetici, abitudini, sguardi, posture.
Come a dire: a Napoli, le identità si sedimentano anche nei volti.
David parla di “quartieri con quattrocento anni di storia autonoma”, separati più dalla cultura e dalla relazione che dalla distanza fisica. Ed è proprio questo a confermare la forza del concetto di periferia relazionale: mondi che abitano la stessa mappa, ma non la stessa rete di senso. Corpi che si sfiorano, ma non si attraversano. Esistenze che si conoscono solo di vista, ma quando si incontrano, nascono storie.
Parlare di Napoli significa allora parlare di periferie culturali e relazionali, non solo urbanistiche.
È possibile sentirsi esclusi pur vivendo in centro.
È possibile essere parte di una rete pur vivendo ai margini.
Perché a Napoli l’appartenenza non si misura in metri, ma in relazioni.
Eterotopie e luoghi-soglia
A questa lettura si affianca un’ulteriore riflessione teorica che trova eco nel concetto di eterotopia elaborato da Michel Foucault. Nella sua visione, esistono luoghi che, pur essendo reali e presenti nel mondo fisico, rappresentano uno “spazio altro”: contesti che riflettono, disturbano o contraddicono lo spazio ordinario della società.
Napoli, più che essere un’eterotopia nel suo insieme, è una città eterotopica: disseminata di soglie, interruzioni, luoghi che funzionano come spazi altri.
Il Cimitero delle Fontanelle, la metropolitana dell’arte, le “vaste” dei Quartieri Spagnoli, gli ospedali del centro storico sono esempi concreti di eterotopie urbane: luoghi in cui la norma si sospende, il tempo si stratifica, e l’identità collettiva si riassesta.
È una città attraversata da continue discontinuità simboliche, che la rendono insieme familiare e irriducibile, interna e periferica, ordinaria e deviante.
Napoli resiste all’ordine e alla pianificazione, e per questo mostra con forza tutta la sua potenza simbolica e sociale.
Esistono, infatti, delle vere e proprie periferie relazionali: spazi dell’invisibilità e dell’esclusione che non coincidono con i margini fisici della città.
Si può vivere ai Quartieri Spagnoli o al Vomero, a Forcella o a Chiaia, e sentirsi comunque fuori da certi circuiti di riconoscimento, di protezione, di rappresentazione. Le reti che determinano l’appartenenza non sono sempre visibili: sono fatte di cognomi, inflessioni dialettali, codici non scritti, appartenenze familiari, alleanze simboliche. In questa rete, la geografia cede il passo alla sociologia.
Eppure, in questo sistema stratificato, Napoli è anche un potente melting pot.
Nei corridoi delle scuole, spesso, convivono i figli del professionista e quelli del camorrista. Le classi scolastiche diventano laboratori inconsapevoli di convivenza tra mondi che altrove non si parlerebbero mai.
L’ascensore sociale, se esiste, è un ascensore intermittente: può portare in alto o far crollare tutto, ma soprattutto può far incontrare. Questa capacità di mescolare e sovrapporre, di creare attriti e contaminazioni, è forse ciò che più affascina e, insieme, destabilizza cognitivamente l’estraneo (’o stranier’) che visita la città.
E forse è proprio questo a lasciare allibiti, e attratti nello stesso tempo, molti dei turisti e dei viaggiatori che affollano oggi le strade di Napoli.
Perché qui non trovano una città da cartolina, ordinata e leggibile, ma un organismo vitale e imprevedibile. E, nel caos apparente, intuiscono una forma di coerenza altra, non geometrica ma vissuta, non regolata da assi ma da flussi.
Napoli non è una città da spiegare: «è una città da ascoltare», come ci raccontava lo scrittore Biagio De Giovanni, alla presentazione del suo nuovo romanzo.
Alcuni hanno parlato di Napoli come di una città organizzata in caste. Ma più che caste, si tratta di reti invisibili di riconoscimento, appartenenza, trasmissione, che regolano l’accesso al potere, al rispetto, alla protezione. Una geografia relazionale in cui contano i nomi, i cognomi, i quartieri, le fedeltà familiari e perfino le inflessioni del dialetto. Ma a differenza delle caste, qui tutto è instabile: si può salire, si può cadere, si può disertare.
E soprattutto, si può mescolare.
La città come foresta
È da questo attrito tra struttura e ibridazione che nasce il fascino e la ferita di Napoli.
In una riflessione condivisa con l’antropologo Dario David, emerge una metafora capace di illuminare la complessità della città: Napoli come una foresta antropologica.
Ogni quartiere è un ecosistema autonomo, separato non tanto da metri quanto da relazioni, memorie, forme di isolamento culturale. Alcuni quartieri, ci ricorda David, hanno «quattrocento anni di storia autonoma»: microcosmi che, nel tempo, hanno sviluppato una sorta di identità visiva condivisa. Non per fisiognomica, ovviamente, ma per sedimentazione culturale: sguardi, posture, gesti, codici estetici che si tramandano come patrimoni invisibili.
A questa immagine, David affianca un’altra suggestione, presa in prestito dall’ecologia: quella dell’ecotono.
In natura, l’ecotono è una zona di transizione tra due ecosistemi, per esempio tra una foresta e una prateria, dove le specie si ibridano, si adattano, e talvolta sviluppano comportamenti nuovi. È un’area instabile, fertile, ricca di contaminazioni. Gli ecologi parlano di edge effect: un margine dove la diversità aumenta, ma anche la fragilità.
Anche Napoli presenta i suoi ecotoni: vie come il Rettifilo o via Toledo non sono semplici arterie di collegamento, ma vere e proprie linee di frattura. Non uniscono: dividono. Da un lato la città vetrina, dall’altro la città profonda. In mezzo, un cuscinetto relazionale fatto di dialetti sfumati, prezzi intermedi, estetiche ibride, usi incerti dello spazio. Sono soglie porose, attraversabili ma mai neutre.
In ecologia si parla anche di patching, la disposizione a chiazze di ambienti differenti che convivono in un equilibrio precario. Così accade a Napoli, dove il tessuto urbano è composto da isole culturali disomogenee, incollate una all’altra senza un ordine apparente, ma con una logica interna fatta di storie, protezioni e conflitti.
È proprio in questi spazi–soglia che Napoli cambia pelle ogni giorno, rinegoziando i propri confini simbolici e le sue forme di appartenenza.
Napoli, dunque, non è una città che si attraversa solo con i passi. Si attraversa con le relazioni, con la competenza simbolica, con la capacità di leggere gli interstizi.
Una città che chiede di essere abitata come si abita una foresta: in punta di piedi, ma con tutti i sensi all’erta.
Pino Daniele l’aveva già cantato.
Con la forza di una frase semplice e definitiva, aveva colto l’indicibile:
«Napule è mille culure».
Napoli non si spiega.
Si attraversa.
Episodio zero – Topografie dell’invisibile
Viaggio narrativo attraverso i codici nascosti di Napoli: un portale d’accesso a una città che si legge come un metaverso, si ascolta come una foresta, si vive come una soglia.
Episodio 2 – Napoli, il metaverso reale
Napoli come città-avatar, sistema immersivo. Dove ogni quartiere è una land, ogni nome un protocollo di accesso, e il corpo stesso è un visore. La realtà qui è più complessa della simulazione.
Episodio 3 – Quando il vicolo sa che ore sono
Napoli non ha bisogno di orologi. In certi vicoli, il tempo si legge nei gesti, negli odori, nei rituali che si ripetono con precisione millimetrica ogni giorno.
Episodio 4 – Il napoletano che domò gli afghani
Dall’organismo urbano ai confini del mondo. Un racconto che attraversa la geografia e torna alla radice: il Mediterraneo come codice genetico. Perché Napoli non è solo un luogo: è una mentalità capace di governare anche l’inconoscibile.
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