Quando l’arroganza del sapere rischia di fermare la conoscenza
C’è una parola che andrebbe bandita da ogni laboratorio, da ogni comitato etico, da ogni simulazione teorica: mai.
“Mai si potrà volare più pesanti dell’aria.”
“Mai si potrà superare la barriera del suono.”
“Mai potremo manipolare l’atomo.”
“Mai potremo decodificare il genoma umano.”
Mai potremo osservare un buco nero.”
….
“Mai la meccanica quantistica potrà applicarsi a sistemi biologici.”
Storie di impossibili diventati possibili
Ogni “mai” è un ponte verso l’imprevisto
Ci sono parole che sembrano scolpite nella pietra. “Mai”, per esempio. Eppure la pietra, sotto pressione, si frantuma. Proprio come le certezze.
Per decenni, l’idea che un aereo potesse superare il muro del suono era considerata una fantasia da pulp magazine. Poi Chuck Yeager salì a bordo del Bell X‑1 e trasformò il mito in cronaca.
Il volo stesso, quello più pesante dell’aria, era stato liquidato dai fisici come un’assurdità. Ma i fratelli Wright avevano un hangar, un sogno e qualche metro di pista. Quel sogno decollò, e con lui tutta un’epoca.
Non si poteva dividere l’atomo. Finché lo si divise.
Non si poteva trapiantare un cuore. Finché batté in un petto nuovo.
Non si poteva battere l’uomo a scacchi. Finché Deep Blue giocò meglio di Kasparov.
Non si poteva vedere un buco nero. Finché ne osservammo il bordo.
Non si poteva decodificare il genoma. Finché fu tutto lì, nelle banche dati.
Non si poteva imitare l’intelligenza. Finché cominciammo a parlarle, chiedendole consiglio.
La scienza, in fondo, è la storia di una lunga serie di “mai” che si sono arresi al tempo, alla pazienza e a qualche test fallito.
Quindi no, non sappiamo ancora se la coscienza sia quantistica. Ma sappiamo questo: ogni volta che abbiamo detto “mai”, la realtà ha aspettato in silenzio.
E poi, con calma, ci ha smentiti.
Ogni volta che la scienza ha provato a mettere un punto, la realtà si è incaricata di aggiungere una virgola. E in alcuni casi, un intero paragrafo nuovo.
Tra gli esempi più affascinanti di questa dinamica c’è quello di Anthony J. Leggett, oggi Premio Nobel per la Fisica (2003), ma ieri considerato da molti colleghi un “eretico elegante” della teoria dei superfluidi. Leggett osò ipotizzare che l’elio-3, raffreddato a temperature prossime allo zero assoluto, potesse manifestare comportamenti quantistici macroscopici. Per qualcuno era una follia: troppo rumore termico, troppe particelle in gioco. Ma Leggett dimostrò che non solo era possibile, ma che la coerenza quantistica non è una prerogativa delle particelle isolate nel vuoto. Anche i sistemi “sporchi” del mondo reale possono danzare sulla musica dell’indeterminazione … Ed oggi, è dalla intuizione di Legget e i suoi colleghi che i computer quantistici e la computazione quantistica sono realtà.
Ed è proprio da qui che oggi ancora una volta qualcuno tenta un passo ulteriore.
Un gruppo di ricercatori cinesi ha recentemente pubblicato su Physical ReviewE
uno studio teorico secondo cui la guaina mielinica dei neuroni, grazie alla sua struttura cilindrica, potrebbe comportarsi come una micro-cavità quantistica, capace di generare fotoni entangled.
In altre parole, la coscienza, quel misterioso campo di interconnessioni dinamiche, potrebbe avere una base quantistica più concreta di quanto finora accettato.
Sappiamo bene cosa succede in questi casi: si alzano gli scudi.
“Impossibile.” “Inconfermabile.” “Pseudoscienza.”
Ma anche Leggett se lo sentì dire.
Certo, bisogna essere onesti: lo studio cinese è teorico. Non c’è ancora prova sperimentale. Non è stata osservata l’emissione di fotoni entangled nella mielina, né tantomeno il loro ruolo nei processi cognitivi. La comunità resta giustamente scettica.
Il cervello è caldo, umido, biologicamente turbolento: non proprio il miglior posto per mantenere coerenza quantistica.
Ma cosa hanno davvero detto questi scienziati cinesi, e perché, al di là dei titoli acchiappa-like, vale la pena ascoltarli con attenzione?
La loro proposta è semplice nella struttura quanto radicale nelle implicazioni: e se la mielina, quella sostanza grassa che avvolge i nostri neuroni per far scorrere più rapidamente i segnali, fosse anche una cavità quantistica?
Nel mondo della fisica, una “cavità” è uno spazio chiuso dove le onde elettromagnetiche possono risuonare. È un principio che usiamo nei laser, nella spettroscopia, nella computazione quantistica. Secondo lo studio, la guaina mielinica avrebbe una geometria e una densità tali da potersi comportare esattamente così: come una cavità capace di confinare onde e stimolare interazioni quantistiche.
E dentro questa cavità naturale, nel buio biologico del cervello, si genererebbero coppie di fotoni entangled: particelle di luce “gemelle”, istantaneamente connesse a prescindere dalla distanza. Un fenomeno già ben noto, e sfruttato, tra l’altro, nella crittografia quantistica, che qui viene ipotizzato come meccanismo interno alla fisiologia neurale.
Il salto è ardito. Ma il ragionamento è lineare: alcune vibrazioni molecolari, tipiche delle molecole lipidiche della mielina, potrebbero emettere fotoni infrarossi. Se queste emissioni avvengono in modo coerente, in uno spazio geometrico che confina le onde, allora, dicono i ricercatori, l’entanglement potrebbe non solo essere possibile, ma frequente.
Un gioco di simmetrie, distanze, oscillazioni: pura fisica teorica, costruita su un’osservazione concreta del sistema biologico.
E qui arriva la parte che ha fatto storcere il naso a molti.
Perché se davvero il nostro cervello generasse continuamente fotoni entangled, allora la comunicazione tra neuroni potrebbe avvenire non solo attraverso segnali elettrici o chimici, ma anche tramite connessioni quantistiche istantanee. Un’ipotesi che, se verificata, aprirebbe scenari completamente nuovi sulla coscienza, sull’unità dell’esperienza interiore, sulla sincronicità tra regioni cerebrali lontane.
O forse no.
Perché, ricordiamolo ancora: non c’è alcuna prova sperimentale che questi fotoni vengano effettivamente prodotti, o che sopravvivano al caos biologico del cervello. Eppure…
Eppure la teoria è formulata con rigore. E soprattutto, non grida al miracolo. Non pretende di spiegare la coscienza o di sostituire neuroscienze e psicologia. Si limita – con discrezione matematica: a dire:
“Guardate che lì, nella mielina, ci sarebbero tutte le condizioni per l’entanglement. Ora verificate.”
È proprio questa modestia a renderla affascinante. Perché non vuole essere una verità assoluta, ma un “e se…” ben posto.
E a ben vedere, è proprio così che nascono le rivoluzioni: da ipotesi che non cercano consenso, ma conferma. E che, nel tempo, se sopravvivono alla verifica, smettono di essere follia e diventano scienza.
Eppure…
Eppure la fisica quantistica ha già sorpreso il mondo biologico una volta: nella fotosintesi, nella magnetorecezione degli uccelli, perfino nella respirazione cellulare. Tutti ambiti in cui si pensava che i quanti si sarebbero “disfatti” all’istante. E invece…
Mai dire mai, appunto.
C’è una differenza radicale tra ciò che oggi non possiamo misurare e ciò che è impossibile. Le tecnologie cambiano, i paradigmi si sgretolano, le evidenze si accumulano in silenzio.
E un giorno, all’improvviso, il confine si sposta. Non è un caso se le rivoluzioni scientifiche spesso iniziano come eresie epistemologiche.
E non è un caso se la paura del ridicolo ha ucciso più idee della censura.
Il punto non è dire che la coscienza sia quantistica.
Il punto è non escluderlo solo perché non sappiamo (ancora) come provarlo.
Se la storia di Leggett ci insegna qualcosa, è che anche le teorie più radicali possono, un giorno, trovare casa nella realtà. A patto che qualcuno abbia avuto il coraggio di scriverle, anche quando sembravano inconcepibili.
E allora, per chi pensa, per chi immagina, per chi cerca:
mai dire mai.
Altre riflessioni che butto nella “pentola” della Fisica quantistica (gli amici scienziati non me ne vorranno … ), e sul tema del Digital Divide Culturale : uno dei problemi che ci pervade, causa di molti analfabetismi funzionali
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