C’è un momento, a volte improvviso, altre volte lento come una crepa che si allarga, in cui ti accorgi che non basta più dire “era legale”.
È da lì che inizia il libro di Vito Alfieri Fontana. Ma prima ancora comincia una domanda: “Papà, perché proprio tu costruisci le mine?” Gliela fa suo figlio, un giorno qualunque. Ma da quel giorno nulla sarà più come prima.
Ero l’uomo della guerra non è un’autobiografia nel senso classico. È un atto di coscienza. È il racconto di un uomo che ha vissuto due vite, sì, ma senza mai poterne separare davvero i frammenti. Per anni ha progettato mine antiuomo in una delle aziende italiane leader nel settore. Ha portato l’ingegneria italiana, quel “saper fare” che spesso raccontiamo con orgoglio, nel cuore delle guerre del Medio Oriente e dei Balcani.
Mine leggere, intelligenti, economiche. E per questo letali, durevoli, invisibili.

Ma un giorno ha smesso di costruirle. E ha iniziato a disinnescarle. Non metaforicamente: con le mani, nei campi di Kosovo, Bosnia, Serbia.
Mettendo a disposizione la sua stessa competenza tecnica, quella del progettista di morte, per restituire la vita. Un percorso di riconversione etica, non solo industriale.
Un raro esempio di dual use della coscienza.
Il sapere tecnico può essere orientato. Non è neutro. Fontana ce lo dice senza proclami, senza retorica: le stesse mani che progettano un’arma possono restituire sicurezza. Ma solo se la volontà cambia direzione. Solo se si decide di mettere la conoscenza al servizio della riparazione, non del danno.
L’Italia, in quegli anni, era un’eccellenza nel settore delle mine. Un orgoglio sommerso, che ha esportato mutilazioni e morte come se fosse design. Fontana ne racconta i numeri, le rotte, gli intermediari: l’Egitto, l’Iraq, il Pakistan.
I banchetti con whisky proibito a Islamabad, i pescherecci caricati di armi a Mazara, gli affari triangolati sotto l’ombrello del made in Italy. Ma il cuore del libro è altrove. È nel corpo del figlio che chiede, e nella voce di don Tonino Bello che, anche senza averlo mai conosciuto, segna la direzione.
La svolta non è indolore. Chi lascia l’industria della guerra non viene accolto come un eroe. Viene visto come traditore, come tradito, come ingenuo. Fontana racconta anche questo: la solitudine di chi cambia. Il sospetto. La diffidenza. Ma anche l’incontro con un’altra umanità, quella delle vittime, dei volontari, dei bambini che corrono di nuovo in un campo una volta minato. Ed è lì che la competenza tecnica torna ad avere senso. Ed è lì che si compie, in silenzio, la vera “conversione industriale”: trasformare il sapere in cura.
Questo libro non assolve. Non vuole commuovere. Ma ci invita a fare i conti. Con ciò che produciamo. Con ciò che vendiamo. Con ciò che ereditiamo senza interrogarlo. È un libro che riguarda tutti, non solo chi ha fabbricato mine.
Perché tutti, in qualche misura, scegliamo se mettere le nostre competenze al servizio del sistema o al servizio di una possibilità diversa.
E quando questo dual use si compie nella direzione della vita, allora sì, possiamo parlare di riconversione vera.
Non solo delle fabbriche. Ma della coscienza.
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