Il Futuro che costruiamo altrove

Un servizio molto interessante, Arabia Saudita, la rivoluzione nel deserto, andato in onda su Speciale TG1 e curato da Barbara Carfagna, mi ha ispirato una riflessione che si intreccia profondamente con alcune mie esperienze professionali del passato e con una domanda più attuale che mai: siamo stati davvero all’altezza della sfida globale quando ci siamo candidati per ospitare Expo 2030, in competizione con l’Arabia Saudita?


Guardando quel reportage, lucido, denso, a tratti sorprendente, per chi osserva ancora il mondo arabo con lenti deformanti ho visto un Paese che corre, mentre noi spesso sembriamo arrancare tra i ricordi.
A Riad si costruisce il futuro con progettualità visionaria e strumenti tecnologici avanzatissimi; in Italia, invece, si è cercato di evocare l’eco sbiadita di una Roma imperiale, presentando un rendering di padiglioni rivestiti di pannelli solari come simbolo del nostro “futuro”.
Ma era davvero una proposta all’altezza?
Era questo il messaggio che volevamo dare al mondo?
O, ancora una volta, ci siamo rifugiati nella retorica dell’heritage, ignorando che il futuro si gioca altrove, e su altri livelli?

Il servizio mi ha riportato con forza alla memoria un’esperienza vissuta oltre vent’anni fa, quando ebbi l’opportunità di entrare in contatto diretto con quel mondo per un progetto dedicato alla valorizzazione della storia degli Emirati Arabi in chiave digitale.
All’epoca, ancora lontano dai riflettori dell’opinione pubblica occidentale, quel fermento era già tangibile. Non si trattava solo di petrolio o grattacieli: si percepiva una volontà concreta di immaginare e costruire un futuro diverso. Le intenzioni erano chiare, i progetti ben definiti, l’attenzione verso competenze esterne molto alta.
Non c’era improvvisazione, ma una pianificazione meticolosa, sostenuta da investimenti e, soprattutto, da una fame autentica di cambiamento, pur nel rispetto delle proprie tradizioni.

Qualche anno dopo fui coinvolto in prima persona da interlocutori istituzionali e culturali degli Emirati Arabi Uniti, che ci proposero di trasferirci per aprire una società con l’obiettivo di portare lì le nostre competenze nel campo della comunicazione e dell’innovazione nella produzione audiovisiva.
Non si trattava di esportare un modello occidentale, ma di contribuire alla nascita di un ecosistema nuovo, ibrido, in cui arte, media, sapere esperienziale e tecnologia convergessero in una visione a lungo termine, pensata per durare venti o trent’anni.
Un progetto multilivello e globale, che non chiedeva da dove venivamo, ma cosa eravamo capaci di fare.

Ecco perché, oggi più che mai, mi colpisce lo scarto tra quella visione e la nostra narrazione attuale.
In Italia, e non solo, siamo ancora prigionieri di un atteggiamento politico-paternalista, convinti di dover “portare la civiltà” in luoghi che, in realtà, ci stanno già superando sul piano dell’immaginario, della governance e della concretezza.
Loro parlano di Vision 2030, in piena coerenza con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Noi, invece, fatichiamo ancora a far conoscere concretamente questi obiettivi a imprese e istituzioni, come se l’Agenda fosse un esercizio burocratico più che una bussola strategica.

Mentre l’Arabia Saudita ha già piantato 25 milioni di alberi nel deserto -con l’obiettivo dichiarato di arrivare a 10 miliardi di piantumazioni grazie alla Saudi Green Initiative, e a 50 miliardi in tutto il Medio Oriente- sperimenta l’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione (con progetti come HUMAIN) e costruisce una diplomazia multipolare capace di dialogare, contemporaneamente, con Xi, Biden (oggi Trump) e Putin.
Da parte nostra, continuiamo a proporre un’estetica da brochure istituzionale, incapace di restituire una visione autentica.
Lì si pianifica il futuro; qui, troppo spesso, si celebra il passato.

Il reportage mostra chiaramente che in Arabia Saudita il futuro non è solo desiderato: è già in costruzione.
Circa il 63% della popolazione ha meno di trent’anni. Sono giovani, connessi, parlano la lingua dell’innovazione e rifiutano l’immobilismo.
Nelle immagini scorrono donne a capo scoperto, studenti che si improvvisano modelli per finanziare gli studi, architetti e paesaggisti che progettano città nel deserto.
A NEOM ,un progetto da 500 miliardi di dollari che include la linea urbana futuristica The Line , si costruiscono sogni con ruspe, dati e algoritmi.
Non si tratta solo di scenografie, ma di cantieri reali.

“Non si può tenere chiuso un Paese”, dice una voce nel documentario.
E infatti si aprono scuole miste, carriere femminili, si autorizza perfino la guida per le donne: un gesto impensabile fino a pochi anni fa.
È un’accelerazione simbolica e sociale che ha un volto preciso: quello del principe ereditario Mohammed Bin Salman.
Nel 2017 convocò oltre 200 tra principi e tycoon sauditi al Ritz-Carlton di Riad.
Non si trattò di arresti formali, ma di una detenzione negoziata: ai presenti fu chiesto di restituire oltre 100 miliardi di dollari per il “il bene del paese”.
Un atto autoritario, certo, ma anche fondativo: da quel momento, la monarchia si è riorganizzata in chiave tecnocratica, diventando una macchina di governance capace di testare nel deserto quello che in Europa rimane spesso confinato ai panel accademici.

Il PIL saudita, oggi pari a circa 1.100 miliardi di dollari, viene investito in città verticali, vivai nel deserto, programmi turistici di lusso, ma anche in ricerca e innovazione tecnologica.
L’obiettivo è esplicito: diventare un nodo strategico nelle nuove rotte globali, un hub tra Oriente e Occidente, tra tradizione e futuro.
Non più solo “benzinaio del mondo”, ma come osserva l’ex ambasciatore italiano intervistato da Barbara Carfagna: un vero e proprio “bancomat intelligente” della geopolitica.
E la diplomazia lo riconosce: la stretta di mano tra Biden e Bin Salman, dopo il caso Khashoggi, ne è la prova.
Quando l’innovazione si coniuga con la realpolitik, il sistema internazionale tende a digerire anche ciò che fino a poco prima sembrava inaccettabile.

E l’Italia? Il documentario lo dice chiaramente: esportiamo verso l’Arabia Saudita per circa 6,2 miliardi di euro, ma gran parte delle nostre imprese non ha ancora compreso le opportunità offerte da questa nuova fase.
Proprio per questo, lo scorso aprile, oltre un centinaio di business leader sauditi sono arrivati in Italia per incontrare direttamente le nostre piccole e medie imprese e coinvolgerle nei Giga Project.

“È una cosa mai vista”, racconta l’architetto fiorentino Luca Dini, che oggi progetta l’isola di Sindalah nel Mar Rosso.
Il paradosso? Quel know-how è italiano, ma viene messo a frutto altrove, dove c’è ascolto, visione e fiducia. Da noi manca consapevolezza. E, forse, anche coraggio.

Là dove una volta lo straniero veniva guardato con sospetto, oggi si costruisce a una velocità impressionante.
Non solo città e infrastrutture, ma una nuova società. È un cantiere fisico e simbolico che interroga il nostro modello di governance occidentale.
E questa, forse, è la vera posta in gioco: capire se quel treno vogliamo seguirlo, guidarlo o continuare a ignorarlo.
Ma ormai non è più possibile far finta che non esista. Il futuro non aspetta. E non fa sconti a chi si rifugia nella nostalgia.

E alla fine, sarà proprio l’Arabia Saudita a mostrare al mondo chi è davvero proiettato nel futuro: e questo anche grazie al contributo delle aziende italiane.
Perché il problema non è che noi italiani non siamo capaci di pensare, progettare o costruire il futuro.
Il talento c’è. Le competenze anche. La loro visione pure.
Il dramma è che a ostacolarle, soffocarle, ignorarle sono proprio coloro che dovrebbero valorizzarle.
Non è il “Sistema Italia” il problema, ma gli italiani che lo governano, che decidono, che bloccano ogni slancio con istituzioni immobili, ancorate a logiche amministrative da secolo scorso.
E la riprova è evidente: abbiamo i fondi del PNRR, ma non riusciamo a tradurli in progetti concreti con una vera futura visione.
E così, mentre altrove si apre lo spazio per le nostre eccellenze, qui rischiamo di vederle fiorire altrove, solo perché qui non è stato permesso loro di emergere.


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