Adolescence

Quando la rabbia adolesceziale è un sintomo e non solo una colpa

Nell’ecosistema contemporaneo, in cui la comunicazione è sempre più immersiva, transmediale e influenzata dalle logiche dell’engagement, emerge con urgenza la necessità di ridefinire la funzione dei contenuti culturali e mediali. In questo contesto si afferma il concetto di contenuti di scopo (purpose-driven content), ovvero prodotti narrativi progettati non solo per attrarre e intrattenere, ma per stimolare riflessione critica, generare consapevolezza, influenzare positivamente il tessuto sociale.

Un contenuto di scopo si distingue per la sua intenzionalità trasformativa: nasce con un obiettivo valoriale, educativo o etico. Non è un semplice strumento di comunicazione, ma un atto progettuale che si colloca all’intersezione tra cultura, educazione e attivazione sociale. La sua efficacia si misura non tanto in termini di visibilità o viralità, ma nella capacità di attivare processi cognitivi, emozionali e comportamentali in chi lo fruisce.

In questo senso, l’audiovisivo – e in particolare il linguaggio seriale – può diventare un dispositivo pedagogico non convenzionale, capace di entrare in risonanza con le nuove generazioni e di aprire spazi di confronto pubblico su tematiche complesse. Quando un contenuto riesce a generare questa dinamica, non solo racconta il reale: lo interroga, lo mette in discussione, e talvolta lo modifica.

È proprio in quest’ottica che si colloca Adolescence, la miniserie britannica recentemente distribuita su Netflix, esempio concreto di un contenuto di scopo capace di interrogare il presente, offrendo strumenti di comprensione intergenerazionale e di lettura critica della realtà.


Se vogliamo comprendere il potenziale di trasformazione culturale offerto da questa serie, è necessario partire dalla trama.

Adolescence si articola in quattro episodi ed è ambientata in una tipica comunità britannica, dove la scuola – come spesso accade nel sistema scolastico del Regno Unito – accoglie al suo interno ragazzi e ragazze di età compresa tra gli 11 e i 16/18 anni.
Ma c’è di più: il racconto si sviluppa in una realtà piccola, compatta, quasi chiusa su se stessa, in cui tutti i ragazzi si conoscono, e spesso anche le rispettive famiglie. Un microcosmo dove le relazioni sono inevitabili, e dove l’apparente vicinanza genera anche tensioni sotterranee, esclusioni, dinamiche di gruppo spesso crudeli.

È in questo contesto che prende avvio la vicenda: l’arresto del tredicenne Jamie Miller, accusato dell’omicidio della coetanea Katie Leonard, trovata senza vita in un parco nei pressi dell’istituto.

Ma ciò che sembra l’inizio di un thriller investigativo si rivela ben presto qualcosa di molto diverso.

Ogni episodio è girato in un unico, lungo piano sequenza, una scelta registica radicale che elimina qualsiasi filtro tra lo spettatore e il flusso degli eventi, immergendolo in un’esperienza percettiva intensa, senza respiro, proprio come quella vissuta da un adolescente sommerso da pressioni invisibili.

La storia si muove tra ambienti scolastici, interrogatori, conflitti familiari e paure latenti, lasciando emergere – senza mai nominarli direttamente – i temi della solitudine giovanile, della comunicazione interrotta tra padri e figli, e dell’educazione emotiva mancata. Il cast è guidato da Stephen Graham, nel ruolo di un padre disorientato e impotente, e dal giovane Owen Cooper, che dà volto e corpo a un protagonista carico di ombre e silenzi.

Questo impianto narrativo fa di Adolescence un dispositivo culturale per comprendere (e prevenire).

La serie non si limita a raccontare un atto di violenza. Lo attraversa e lo decostruisce, mostrando come il gesto estremo sia spesso solo l’epilogo di un percorso silenzioso e progressivo, fatto di esclusione, confusione, vergogna, senso di inadeguatezza.

In questo senso, Adolescence sposta la lente d’ingrandimento: la rabbia adolescenziale maschile non viene presentata come una colpa, ma come un sintomo. Un segnale di qualcosa che non funziona nel sistema relazionale ed educativo che circonda i ragazzi: una cultura che ancora oggi tende a reprimere le emozioni nei maschi, a giudicare la vulnerabilità come debolezza, a ignorare le nuove forme di costruzione dell’identità che si sviluppano nel digitale.

Proprio per questo, la serie rappresenta anche un insegnamento per gli adulti.

Genitori, insegnanti, psicologi scolastici, ma anche magistrati, forze dell’ordine, assistenti sociali: quanti di loro conoscono davvero i linguaggi, le piattaforme, i codici attraverso cui oggi si esprimono i ragazzi? Quanti riescono a cogliere i segnali d’allarme che si nascondono dietro un meme, un nickname, un comportamento online che per l’adulto è invisibile o incomprensibile?


Nella miniserie Adolescence, viene evidenziato come gli adolescenti utilizzino gli emoji per comunicare messaggi nascosti, spesso incomprensibili agli adulti.
Ecco alcuni esempi significativi:​

  • Pillola rossa (Red Pill) (💊)
    Derivata dal film The Matrix, simboleggia l’idea di “risvegliarsi” a una presunta verità sulle dinamiche di genere, spesso associata a comunità misogine online. ​
  • Fagiolo (Kidney Bean) (🫘)
    Utilizzato per identificarsi come “incel” (celibe involontario), indicando un senso di frustrazione sessuale e isolamento sociale. ​
  • 100 (💯)
    Nella serie, rappresenta la convinzione distorta che l’80% delle donne sia attratto solo dal 20% degli uomini, riflettendo una visione pessimistica sulle possibilità di relazione.
  • Cuori colorati
    • Rosso (❤️): Amore romantico.​
    • Viola (💜): Desiderio sessuale.​
    • Giallo (💛): Interesse iniziale, una sorta di “sono interessato, e tu?“.​
    • Rosa (💗): Interesse affettuoso, ma non sessuale.​
    • Arancione (🧡): Messaggio di incoraggiamento, come “andrà tutto bene”.

È fondamentale che genitori ed educatori siano consapevoli di questi significati nascosti per comprendere meglio le comunicazioni dei giovani e individuare potenziali segnali di disagio o coinvolgimento in comunità online dannose.


Adolescence diventa, in questo senso, un atto educativo rivolto agli adulti. Una finestra su un mondo emotivo e culturale spesso ignorato o mal interpretato. E la serie lo mostra non solo come contenuto, ma come dinamica interna alla narrazione: emblematica è la relazione tra l’ispettore Luke Bascombe e suo figlio Adam, anche lui studente nella stessa scuola.

Nel corso delle indagini, è proprio Adam a offrire al padre preziose chiavi di lettura sui codici comunicativi degli adolescenti: dalle allusioni sui social media all’uso di etichette come incel, fino ai linguaggi non verbali che sfuggono alla lettura adulta. È attraverso questo dialogo familiare inaspettato che l’indagine si apre a una comprensione più profonda del contesto giovanile, dimostrando quanto sia difficile – ma necessario – per gli adulti chiedere aiuto per decifrare un mondo che non gli appartiene più, e forse non gli è mai appartenuto.

Questa sottotrama suggerisce con forza che non basta “parlare ai ragazzi”, occorre anche ascoltarli nei loro linguaggi, anche quando sembrano distanti, criptici o persino minacciosi. E soprattutto, che il primo gesto educativo è riconoscere di non sapere.

Per questo, Adolescence si rivela a pieno titolo un contenuto di scopo, per generare consapevolezza.

Non è (solo) una narrazione drammatica: è un invito. Un’opportunità per ripensare il ruolo della cultura audiovisiva come strumento attivo nei percorsi di prevenzione, dialogo generazionale, alfabetizzazione emotiva.

Utilizzata nei contesti scolastici, nei gruppi genitoriali, nei corsi per operatori e magistrati minorili, può rappresentare una leva pedagogica potente, in grado di stimolare riflessioni profonde e non scontate.

Perché oggi, più che mai, comprendere è il primo atto di prevenzione.
E anche il primo passo per costruire una società che sappia riconoscere – e accogliere – le fragilità prima che esplodano.


altri temi/recensioni in questo blog : >> 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑