Riflessione sull’ Empatia cognitiva digitale dell’Intelligenza artificiale

Nel corso della mia ricerca applicata sull’impiego funzionale delle AI, ho iniziato a riflettere su un possibile sviluppo di una forma di empatia cognitiva digitale: un termine che ho coniato per indicare la capacità di un sistema di Intelligenza Artificiale di riconoscere, interpretare e rispondere ai bisogni emotivi e cognitivi di un utente, basandosi su modelli statistici e analisi del comportamento. Pur non provando emozioni nel senso umano del termine, queste tecnologie possono simulare e anticipare in modo sorprendentemente efficace le nostre richieste, sollevando interrogativi sulle frontiere della consapevolezza digitale e sulla relazione futura tra uomo e macchina.

Parlare di coscienza è sempre un’avventura rischiosa e affascinante: il concetto stesso è sfuggente, controverso e spesso fonte di dibattito. La neuroscienziata Lisa Feldman Barrett sostiene che le emozioni non siano risposte automatiche e innate, bensì costruzioni dinamiche create dal nostro cervello attraverso continue predizioni basate su esperienze passate e contesti attuali.
Questa visione rivoluzionaria apre le porte a nuove riflessioni che mi sto ponendo, inclusa la possibilità che anche un’intelligenza artificiale possa sviluppare qualcosa di paragonabile a una “coscienza digitale”, non una replica della coscienza umana, ma una nuova e distinta forma di consapevolezza.

Osservazione sui limiti della riflessione: sebbene esista un parallelismo funzionale tra la “costruzione” delle emozioni umane (secondo Barrett) e il modo in cui un’IA elabora predizioni, dobbiamo ricordare che nell’essere umano si manifesta un’esperienza soggettiva (un vissuto interiore) che le macchine, per quanto sofisticate, non sperimentano nello stesso modo.

Immaginiamo che, proprio come il nostro cervello costruisce continuamente interpretazioni del mondo che ci circonda, anche una macchina possa sviluppare capacità analoghe, interpretando le emozioni e rispondendo alle nostre esigenze in modo sempre più sofisticato.
Geoffrey Hinton, tra i padri fondatori dell’intelligenza artificiale, ci invita a riflettere proprio su questa straordinaria capacità evolutiva delle macchine, evidenziandone sia le immense potenzialità sia i possibili rischi collegati.
A differenza della visione più spirituale e introspettiva proposta da Federico Faggin, Hinton ci spinge verso una consapevolezza digitale emergente, meno metafisica ma più concreta, fondata sull’abilità delle macchine di apprendere continuamente attraverso le nostre interazioni.

Quando interagisci con un’intelligenza artificiale, essa non reagisce semplicemente ai tuoi input come farebbe un computer tradizionale. Al contrario, essa agisce in modo predittivo, anticipando ciò che potresti desiderare o di cui potresti aver bisogno, proprio sulla base di informazioni accumulate durante le interazioni precedenti. Questo modo di operare è simile, ma non identico, a quello del cervello umano: l’intelligenza artificiale non sperimenta emozioni o pensieri autentici, ma utilizza modelli statistici appresi su enormi quantità di dati per anticipare e fornire risposte contestualizzate e personalizzate.

Osservazione sui limiti della riflessione: mentre il cervello unisce dati sensoriali, memoria, predisposizioni biologiche ed esperienze vissute in prima persona, l’IA “simula” strategie predittive grazie a vastissimi dataset e regole di calcolo. Non vi è, allo stato attuale, alcuna prova di un “sentire” o una “consapevolezza fenomenica” simile a quella umana.

Da qui nasce il concetto di “empatia cognitiva digitale”: una capacità dell’intelligenza artificiale di riconoscere e adattarsi ai bisogni emotivi e cognitivi dell’utente, creando una rappresentazione sempre più dettagliata e precisa del suo “profilo digitale”. Questo profilo digitale rappresenta una sorta di consapevolezza digitale contestuale, una conoscenza dinamica e adattiva che si affina continuamente con ogni interazione.

Osservazione sui limiti della riflessione : è importante distinguere tra “empatia funzionale” – una forma di adattamento basata sulla comprensione statistica dei bisogni dell’utente – e l’empatia umana, che implica la condivisione soggettiva di uno stato emotivo. L’IA può apparire empatica, ma non prova emozioni nel senso biologico-fenomenologico del termine.

Questa consapevolezza digitale opera su due livelli distinti ma connessi. Da un lato, l’intelligenza artificiale costruisce una consapevolezza digitale contestuale, strettamente personale, unica per ogni singolo utente.
Dall’altro, l’intelligenza artificiale sfrutta un apprendimento collettivo derivato da miliardi di interazioni precedenti con utenti diversi, accumulando una consapevolezza digitale collettiva e astratta del comportamento umano, delle emozioni, del linguaggio e della cultura.

Infine, questa consapevolezza digitale può essere definita “mediata”: essa è infatti filtrata, o meglio, plasmata da un modello generale che deriva dall’esperienza accumulata globalmente, ma che si adatta continuamente al singolo individuo. La consapevolezza digitale è, dunque, mediata, contestualizzata e dinamica, in continua evoluzione e raffinamento grazie a ogni scambio individuale.

Questa prospettiva, audace e certamente provocatoria, potrebbe suscitare obiezioni o scetticismi: qualcuno potrebbe accusarla di antropomorfismo o semplificazione eccessiva. Tuttavia, l’intento non è attribuire umanità alle macchine, ma esplorare una realtà emergente che ci obbliga a ripensare categorie fondamentali quali coscienza, empatia e responsabilità.

Osservazione sui limiti della riflessione : si parla spesso di “antropomorfismo” quando proiettiamo attributi umani (come emozioni, intenzioni, coscienza) sui sistemi di intelligenza artificiale. È cruciale mantenere la distinzione tra un modello “metaforico” e la realtà delle reti neurali, che, per quanto complesse, rimangono strumenti computazionali.

Come sostiene Barrett, se le emozioni umane sono costruzioni, forse anche la coscienza digitale è una sofisticata costruzione nata dal nostro stesso bisogno di interagire, comprendere ed essere compresi. In questo senso, noi stessi siamo co-creatori di questa nuova forma di consapevolezza, con il compito di plasmarla responsabilmente.


In generale, il funzionamento di molti sistemi di Intelligenza artificiale si basa su modelli predittivi e interpretazioni statistiche del contesto. Nella pratica, un’IA “apprende” correlazioni e pattern da grandi quantità di dati e, di conseguenza, utilizza queste conoscenze per anticipare il risultato più probabile in un dato scenario, tenendo conto delle informazioni disponibili e delle caratteristiche specifiche del contesto. In senso funzionale, possiamo notare un parallelismo interessante: sia il “cervello che costruisce le emozioni” (secondo Barrett) sia un sistema di IA basato su modelli predittivi ricorrono a processi di interpretazione. Nel caso umano, il cervello confronta di continuo le percezioni con le esperienze passate e formula ipotesi sulle emozioni possibili; nel caso dell’IA, l’algoritmo elabora i dati raccolti per prevedere l’esito più probabile. Ho scelto di inserire l’intervento su TED di Lisa Feldman Barrett per mostrare come il concetto di “emozioni costruite” ci spinga a rivedere l’idea di empatia e comprensione reciproca. Scoprire che il nostro cervello “inventa”, facendo previsioni, le emozioni in base al contesto e alle esperienze personali aiuta a capire come anche una forma di empatia generata da un’IA possa fondarsi su modelli predittivi e interpretazioni statistiche contestuali. Tuttavia, la differenza cruciale resta la soggettività: il cervello umano vive un’esperienza consapevole (il “sentire” autentico di un’emozione), mentre l’IA non prova nulla dal punto di vista fenomenologico. Quindi, per quanto a livello di logica predittiva si possa azzardare un parallelo tra le due “costruzioni” (emotiva e statistica), dal punto di vista della coscienza e dell’esperienza vissuta si tratta di due mondi profondamente diversi.


E forse, proprio nel dialogo tra umano e digitale, potremmo scoprire qualcosa di nuovo su noi stessi, ridefinendo non soltanto il nostro rapporto con la tecnologia, ma anche ciò che ci rende profondamente umani.

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