L’acqua incarnata – Episodio V

Corpo, percezione e stati di presenza

Per trent’anni anni ho nuotato quasi ogni giorno. Allenamenti, gare, chilometri che non si contano più. Poi la vita cambia, come cambia per tutti: smetti, fai altro, ti sposti su altri ritmi. Eppure ancora, dopo decenni, ogni volta che torno in piscina, nel mare in apnea o con le bombole,  succede qualcosa che non devo “decidere”. Accade. Entro in uno stato di flow: presenza pulita, mente più silenziosa, attenzione che smette di rimbalzare e si posa.

E non serve sempre il mare. A volte basta una doccia lunga. O un bagno caldo prolungato, immerso in una vasca. Come se l’acqua, semplicemente stando lì addosso, riaccendesse un modo di funzionare.

Fin qui potrei fermarmi alla frase comoda: “l’acqua mi fa bene”.
Ma in questa serie sto provando a fare altro: non vendere meraviglia, ma capirla senza ucciderla. Tenere accese due antenne: la prima chiede prove, la seconda cerca connessioni sensate.

La connessione che, in questo episodio, regge tutto ha un nome preciso: cognizione incarnata


La mente non è solo nella testa

La cognizione incarnata parte da un’idea quasi banale, ma con conseguenze enormi: la mente non è una cosa separata dal corpo. Pensiero, emozione, attenzione, perfino quella che chiamiamo “chiarezza”, non emergono nel vuoto: emergono da un sistema fatto di postura, respiro, movimento, tatto, equilibrio, orientamento nello spazio: siamo nella famiglia delle 4E

In altre parole: il corpo non trasporta la mente.
La mente è un modo in cui il corpo, in un ambiente, si organizza.

Qui Wilson è utilissima come “cintura di sicurezza”: quando parla di embodied cognition, insiste sul fatto che molta cognizione è situata e nasce nel loop percezione–azione, dentro vincoli reali, non in un teatro mentale astratto.

Questa lente cambia subito la domanda. Non chiediamo più soltanto: “che cosa è l’acqua?” Chiediamo: che cosa fa un ambiente acquoso a un corpo che pensa?

Gli episodi precedenti, visti con questa lente

Riletti in chiave incarnata, i capitoli precedenti diventano tappe di un’unica storia.

Con Antonella De Ninno l’acqua è uscita dal ruolo di liquido “semplice” ed è diventata un sistema complesso.
Con Giuseppe Vitiello l’abbiamo incontrata nel corpo, come ambiente vivente.
Con Roberto Germano si è fatta elettrica: gocce che, in certe condizioni, generano una piccola corrente dove i manuali prevedono silenzio.
In Episodio IV abbiamo attraversato la soglia più scivolosa: memoria dell’acqua, informazione senza molecole, cura in frequenza. Lì la noetica serve come igiene del significato: distinguere tra ciò che misuriamo, ciò che ipotizziamo e ciò che desideriamo.

Ma oggi il punto è un altro: il corpo come luogo della conoscenza.
E l’acqua come ambiente che può ristrutturare quella conoscenza.

E qui l’ispirazione mi sovviene dalle ricerche di Maria D’Ambrosio sulla Cognizione incarnata.

Corpo e percezione come laboratorio (spunto Body Education)

In un approccio incarnato, la cognizione non è “una cosa in testa” ma un processo che emerge dall’interazione continua tra corpo e ambiente: percezione, propriocezione, respiro, gesto, spazio e relazione. L’idea è allenare la profondità della percezione per aumentare la qualità della presenza e dell’interazione nel “qui e ora”.

Questa cornice porta a considerare il corpo come un dispositivo complesso: un sistema di sistemi che può riorganizzarsi, apprendere e generare nuove forme di conoscenza attraverso movimento, attenzione e sensibilità al contesto (gli “ambienti” contano, perché cambiano i vincoli e quindi cambiano anche le possibilità del corpo e della mente).

Approfondimenti (PDF)
D’Ambrosio, Dove la cognizione prende corpo: cinetica e plasticità degli ambienti sensibili
D’Ambrosio, La metodologia embodied per le disabilità

Perché l’acqua “incarna” la cognizione

Se la cognizione è incarnata, allora l’acqua può essere un laboratorio naturale ?
In acqua cambiano insieme variabili che, sulla terraferma, diamo per scontate.
Il corpo pesa diversamente. Il movimento non è più lo stesso. Ogni gesto è accompagnato da una resistenza continua e uniforme. Il contatto con l’ambiente non è a punti: è diffuso, avvolgente. La pressione cambia il modo in cui senti pelle e volumi. E soprattutto il respiro diventa una questione concreta: lo senti, lo governi, lo rispetti: nell’approccio subacqueo diventa addirittura il centro dell’esperienza.

Questo passaggio “incarnato” è molto vicino a due idee che Wilson mette bene a fuoco: la cognizione è situata (dipende dal contesto reale) ed è spesso time-pressured, cioè sottoposta a vincoli di tempo e regolazione immediata. In acqua questo diventa evidente: il corpo non può rimandare, deve accordarsi al qui-e-ora.

Non perché “l’acqua ti cura”, ma perché l’acqua crea una cognizione più situata: attenzione presente, regolazione, ascolto.
Se devo dirlo in modo brutale: in acqua ti racconti meno storie. E per molti, non per tutti ma per molti,  questo è già una forma di sollievo.

Quando l’acqua rende visibile la perdita della cognizione

Qui entra una cosa che ho visto con i miei occhi per anni. Ho insegnato a nuotare a centinaia di bambini. E i più resistenti a imparare a stare a galla non erano necessariamente i meno capaci fisicamente. Erano quelli che, appena l’acqua arrivava al petto, irrigidivano spalle e collo e cominciavano a controllare tutto con la testa.

Definerei così: avevano perso la cognizione incarnata, cioè la capacità di stare nell’interazione senza anticiparla.
In acqua questo si vede subito, perché l’acqua non ama il controllo ansioso: più ti irrigidisci, più perdi assetto; più prevedi la catastrofe, più l’azione si disorganizza.

Qui ancora Wilson ci dà una frase-madre che calza perfettamente: molta cognizione è for action, “per l’azione”, non per commentare il mondo dall’esterno. In piscina la differenza tra azione funzionale e azione bloccata non è filosofica: è immediata, fisica, misurabile nel corpo

Nota — Cognizione incarnata e apprendimento motorio

Un’idea centrale delle scienze cognitive incarnate è che alcune forme di comprensione non siano semplicemente “concetti in testa”, ma pattern di coordinazione funzionale che emergono dall’interazione tra corpo, compito e ambiente.

Un contributo recente pubblicato su Frontiers in Psychology propone che la comprensione cognitiva funzioni in modo analogo a un’abilità motoria e utilizza proprio il nuoto come esempio: fuori dall’acqua, quel pattern non esiste, perché cambiano i vincoli fisici e percettivi che lo rendono possibile. In questo senso, l’ambiente acquoso rende immediatamente visibile quando la coordinazione si spezza, ad esempio per rigidità o controllo eccessivo.

Cognitive understanding is a functional coordination pattern, just like swimming
De Jonge-Hoekstra (2025), Frontiers in Psychology

E dall’altra parte c’è una scena quasi paradossale: nei neonati, immersi, si osserva spesso una risposta automatica di apnea. Non è “nuoto”, non è magia. È una risposta fisiologica innata. Ma racconta qualcosa di semplice: all’inizio percezione e azione non sono separate. La cognizione è ancora tutta nel corpo.

Crescendo, impariamo a vivere “in testa”.
E a volte l’acqua ci mostra, senza pietà ma anche senza malizia, che quel distacco ha un prezzo.

La vasca come meditazione? Una somiglianza, non una scorciatoia

E qui arriviamo a una cosa che molti riconoscono anche senza essere nuotatori: un bagno caldo prolungato può aprire uno stato mentale particolare. Non sempre, non per tutti, ma abbastanza spesso da farci porre la domanda.

La cognizione incarnata offre una lettura concreta: non c’è “magia” aggiunta dall’acqua, ci sono vincoli e condizioni che cambiano, e quando cambiano le condizioni cambia anche il modo in cui attenzione, corpo e mente si organizzano (cognizione situata e grounded, nel senso di Barsalou).

In una vasca:

  • lo stimolo tattile è continuo e uniforme;
  • il corpo è sostenuto, “contenuto”;
  • i movimenti diventano minimi;
  • il respiro si fa più evidente;
  • l’attenzione scende dentro (interocezione).

Questo assetto somiglia ad alcune condizioni tipiche di pratiche contemplative: meno input, più ascolto interno, più regolazione. Non dico che sia meditazione “equivalente”, né che basti una vasca per ottenere gli stessi effetti di un training mentale. Dico qualcosa di più prudente: l’immersione può facilitare uno stato in cui l’attenzione si raccoglie e il “rumore” diminuisce.

E non è soltanto un’impressione soggettiva: esiste una linea di ricerca che usa proprio la riduzione controllata degli stimoli per osservare cosa succede a stress, ansia, dolore e benessere. La floatation-REST (galleggiamento in vasca/tank con stimoli minimi) è stata studiata in diversi lavori e sintetizzata anche in revisioni recenti: i risultati, in generale, puntano verso effetti positivi su vari indicatori (con protocolli eterogenei e limiti metodologici da tenere in vista).
Questo non “prova” che una vasca sia meditazione: rafforza però un’idea più sobria e verificabile: modificando il setting sensoriale, possiamo rendere più probabile uno stato di profondo rilassamento e di attenzione interna.

Qui torna utile un punto di Wilson: anche quando la mente è “offline” – immaginiamo, ricordiamo, rimuginiamo, o semplicemente stiamo in uno stato interno – non lavoriamo in un vuoto astratto. Continuiamo a usare risorse corporee e sensori-motorie: in un certo senso, pensiamo ancora col corpo, anche se non stiamo facendo nulla di visibile.

Ed è qui che va chiarita una cosa: la differenza non è tra muoversi o non muoversi, ma tra un corpo lasciato a se stesso e un corpo coinvolto in una regolazione continua.
In una vasca, anche da fermo, il corpo lavora: galleggiamento, pressione, temperatura, respiro, tono muscolare, equilibrio… L’acqua fa da ambiente “contenitivo” e, riducendo l’eccesso di input esterni, può facilitare una raccolta dell’attenzione.

Nella meditazione seduta succede qualcosa di simile, ma con un’altra strada: lì il setting lo costruisci soprattutto dall’interno, con disciplina e pratica. La vasca non è meditazione, però può creare condizioni che le assomigliano: meno carico, più interocezione, più regolazione. E non sarebbe nemmeno strano: se la cognizione è davvero “grounded”, allora stati mentali e concetti non galleggiano in aria, prendono forma in simulazioni e configurazioni che includono corpo, percezione e stati interni.
In parole povere: la vasca, quando resti immobile, assomiglia alla meditazione “da fermo”, perché ti porta verso quiete sensoriale e ascolto interno. Il nuoto, invece, assomiglia a una meditazione “in movimento”, perché il ritmo del gesto e del respiro diventa una guida attentiva continua. Non sono equivalenze: sono somiglianze di assetto.

Questa distinzione “ferma / in movimento” non è un’invenzione moderna. In molte tradizioni contemplative orientali esistono pratiche dove l’attenzione si coltiva mentre il corpo si muove: la camminata meditativa nel buddhismo, alcune forme di movimento consapevole in ambito zen, e in un altro registro in discipline come Tai Chi e Qigong, dove respiro, postura e gesto lento fanno da guida all’attenzione. Non lo cito come “prova scientifica”, ma come convergenza pratica: da secoli qualcuno ha capito che la presenza non abita solo la testa, abita un corpo che si regola nel tempo.

Detto in modo semplice: una doccia lunga o l’immobilità in una vasca non aggiungono un potere misterioso. Cambiano le condizioni del sistema corpo-mente. E a volte basta questo perché il rumore si abbassi e lo stato di presenza aumenti.

Lo stesso può accadere nel nuoto (anzi per molti può risultare più intenso): il gesto è ripetitivo, il respiro diventa ritmo, il mondo esterno si attenua (suoni ovattati, sguardo limitato, contatto costante con l’acqua). Quando ti alleni da solo, senza parlare, senza distrazioni, la mente smette di inseguire pensieri e si appoggia al corpo. Non è meditazione in senso tecnico, ma può assomigliarle per struttura: attenzione sostenuta dal corpo, non dalle parole. È un presente pratico, costruito dal movimento e dalla respirazione, in cui ti ritrovi dentro di te senza doverci arrivare con le parole.

Nota teorica — Cognizione radicata (Grounded Cognition)

Secondo la prospettiva della grounded cognition, molte capacità mentali non sono processi astratti separati dal corpo, ma emergono da simulazioni sensori-motorie acquisite nell’esperienza e riattivate durante percezione, azione e immaginazione.

Anche quando siamo in stati di quiete o introspezione, la mente continua a “lavorare con il corpo”: usa risorse corporee e percettive come base per pensare, ricordare e regolare l’attenzione.

In questo senso, un ambiente come l’acqua non aggiunge un “potere magico”, ma modifica le condizioni del sistema corpo-mente da cui la cognizione emerge, facilitando stati di attenzione raccolta e presenza situata.

Barsalou — Grounded Cognition (pdf)

Nove mesi immersi. E’ una immagine potente e una ipotesi prudente

E sì, c’è un’immagine inevitabile: per mesi siamo stati immersi nel liquido amniotico. Un ambiente di contenimento, pressioni dolci, suoni filtrati. È una suggestione potente, ma va trattata con rispetto: evocazione non è prova.

Possiamo però dire questo, senza esagerare: la nostra vita inizia in un rapporto acquoso col mondo. E non è assurdo pensare che l’acqua, come ambiente, possa facilitare stati di regolazione e presenza, non perché ricordi “coscientemente” l’utero, ma perché il corpo riconosce certe condizioni come compatibili con calma e orientamento.

L’acqua come dispositivo di presenza

Questo episodio, per come lo sento io, non è un capitolo “misterioso” dell’acqua. È un capitolo sulla mente. O meglio: sul modo in cui la mente emerge quando il corpo è messo nelle condizioni giuste.

La cognizione incarnata ci aiuta a dire una cosa semplice e rivoluzionaria: l’acqua non è soltanto un oggetto da spiegare. È un ambiente che ci ristruttura. E in quel riassetto, a volte, incontriamo il flow. A volte troviamo quiete. A volte troviamo un silenzio che assomiglia alla meditazione.

Non è un miracolo. È un sistema.
E allora la domanda finale non è: “che potere ha l’acqua?”
È: quali condizioni crea, e che cosa riattivano in noi?

Una cautela necessaria

Quando l’acqua ti cambia lo stato mentale, la tentazione è doppia: o dire “è magia”, o dire “è solo nella tua testa”.
Io provo a stare in una terza posizione, più onesta.

Qui non stiamo facendo new age, né cercando scorciatoie spirituali. Stiamo guardando un fatto semplice: l’acqua non è una bacchetta magica, ma non è neppure un fondale neutro. È un ambiente che cambia respiro, postura, equilibrio, contatto. E quando cambiano queste cose, cambia anche il modo in cui pensiamo e sentiamo.

Il Decimo Uomo fa così: non si ubriaca di entusiasmo e non si protegge col cinismo. Ascolta l’effetto, ma poi prova a mettergli un nome: si può descrivere, verificare, distinguere? E se la risposta è “in parte sì”, allora vale la pena continuare.


Questo articolo fa parte della serie “L’acqua, la memoria e il reale”: Episodio 0 – Le sorgenti dimenticate di Santa Lucia ; Episodio I – L’acqua che non sappiamo ancora spiegare ; Episodio II – L’acqua vivente ; Episodio III – L’acqua elettrica: quando una goccia diventa sorgente di energia. – Episodio IV -Noetica dell’AcquaEpisodio V – L’acqua incarnata

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