Ciurè: quando il riscatto non è una scelta, ma una trattativa con la vita

Palermo, in Ciurè, non fa da scenografia: ti guarda. È una città di passaggi, di soglie, di scambi non dichiarati. Cemento e paillettes, caldo e neon: non per estetica, ma perché la realtà, quando la vivi sul bordo, non ha un solo volto. Il protagonista è un pugile, e la boxe qui non è l’eroismo della lotta: è l’abitudine a incassare. Per campare fa recupero crediti per la malavita e sogna di uscirne, finché la vita gli presenta il conto nella forma più crudele: un figlio fragile, un’urgenza che non aspetta.
Da lì, il film apre il suo gesto più necessario: l’incontro con una ballerina transessuale e la domanda semplice e spietata, se due mondi lontani possano diventare qualcosa che somiglia a una famiglia.

Il film è ora disponibile su YouTube:
https://www.youtube.com/watch?v=lse_Pb3nIik


Ci sono film che “raccontano” una città e film che la usano come pressione atmosferica: un campo magnetico che sposta le scelte, comprime le possibilità, deforma le intenzioni. Ciurè appartiene a questa seconda specie. Palermo non è un fondale: è una presenza. È un territorio di passaggi, di contrasti e contiguità: periferia e night club, caldo e neon, ruggine e cipria, cemento e paillettes. Un doppio volto che non è estetica, ma grammatica: perché la realtà, qui, non si lascia ridurre a una sola identità.


Il protagonista è un pugile. Ma la boxe, in questo film, non è la metafora comoda dell’“uomo che lotta”.
È piuttosto una misura del corpo: l’abitudine a incassare, la disciplina, la resistenza.
Qualità che non bastano quando il nemico non è sul ring, ma nella quotidianità. Per sbarcare il lunario, lui lavora come recupero crediti per la malavita: un mestiere che ti sporca anche quando provi a convincerti che “è solo lavoro”.

Eppure Ciurè non costruisce un eroe. Non concede scorciatoie: né l’illuminazione improvvisa, né la redenzione a costo zero. Il desiderio di cambiare vita c’è. Ed è proprio questo a fare male: il film ricorda con crudele precisione che la volontà è un muscolo, non una bacchetta magica.

Poi entra la parte più difficile da raccontare senza retorica: un figlio con problemi, un bisogno reale, un’urgenza che non aspetta i tempi della coscienza. È qui che il film diventa radicale, perché mostra come, in certe condizioni, il “male minore” diventi una trappola logica. Non scegli il bene: scegli ciò che ti sembra l’unico modo per non perdere tutto. E la vita  ti costringe a tornare proprio lì, nella “professione” da cui volevi scappare.

Dentro questo scenario, Ciurè compie il suo gesto più importante, sociale prima che narrativo: l’incontro con una ballerina transessuale e la domanda che si apre, senza bisogno di proclami: possono due mondi così lontani sfidare ignoranza e pregiudizio ed essere, davvero, qualcosa vicino a una famiglia?

La forza del film è che non usa questa presenza come “tema” o bandiera. La usa come specchio. Perché il vero avversario, spesso, non è la violenza esplicita: è il pregiudizio che si traveste da buon senso, l’automatismo culturale che decide chi merita pietà e chi no, chi è “umano” solo a certe condizioni.

È anche così che si comprende perché Ciurè abbia ricevuto tanti riconoscimenti nei festival, soprattutto quelli legati all’impegno sociale: perché prova a fare una cosa rara: trattare un tema caldo come  istanze LGBTQ+, stereotipi, discriminazione, senza trasformarlo in lezione frontale.
Il film lascia che la questione emerga come esperienza, non come slogan: non propaganda, ma responsabilità narrativa.

Qui sento una continuità con una riflessione che avevo già affrontato prima di produrre il film nel mio articolo “Diversity management: le imprese amano la comunità LGBT?: la distanza tra l’inclusione dichiarata e quella reale, tra l’adesione formale ai valori e il peso concreto degli stereotipi nelle vite quotidiane. In quel pezzo sottolineavo, tra le altre cose, quanto conti una comunicazione responsabile: non limitarsi a “mostrare”, ma abitare le questioni sociali con consapevolezza e rigore. Ciurè fa esattamente questo: mette in scena l’umano prima dell’ideologico, e proprio per questo costringe lo spettatore a guardare dove spesso distoglie lo sguardo.

In fondo, Ciurè ti lascia addosso un’idea semplice e dolorosa: quando “non si ha niente” –  “e quando  nemmeno la cipria può coprire i lividi” – ci si aggrappa alla speranza, qualunque forma abbia.
Non è un conforto.
È una constatazione.
Ed è proprio per questo che funziona.



E ora la sua visione è libera su youtube cliccando >>
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