Nelle Lezioni dal passato abbiamo seguito la linea di frattura che porta dagli imperi al trauma, dal trauma alla NATO come macchina tecnica, e dalla geopolitica alla psicopolitica. Ma c’è un filo ancora più profondo, quasi invisibile, che attraversa tutti gli episodi: il limite. Non quello “morale” o “ideologico”, ma il limite come soglia sistemica: ciò che, quando viene negato, torna sotto forma di crisi.
Negli ultimi decenni abbiamo interiorizzato l’idea che accelerare sia sempre una virtù: più tecnologia, più finanza, più competizione, più deterrenza, più escalation. È qui che l’accelerazionismo smette di essere solo una corrente di pensiero e diventa un clima culturale: la convinzione che l’unica risposta al caos sia spingere ancora. Ma quando una civiltà rimuove il limite dal suo linguaggio, non lo elimina: lo sposta. E prima o poi lo ritrova, non come concetto, ma come collisione.
La natura lo mostra in modo spietatamente elegante: basta un “piccolo” scarto per cambiare un intero ecosistema. La storia del lupo di Yellowstone e della “legge del 10%” è una metafora perfetta di ciò che stiamo vivendo: superata una soglia, un sistema non si riforma per buona volontà, ma per reazione. Anche la politica funziona così. Anche gli imperi. Anche le società. Anche le guerre.
È qui che si incrociano i temi di Musk, Thiel, democrazia illiberale, tecnopolitica, e la figura più importante per i prossimi anni: non l’attivista che accelera, né l’arretratore che frena tutto, ma il mediatore del limite. Chi sa riconoscere le soglie prima che diventino precipizi. Perché il problema non è “chi ha ragione” tra i blocchi: è che stiamo facendo i conti senza l’oste. E l’oste, spesso, è il limite stesso.
Questo episodio può essere letto anche da solo. I riferimenti interni non sono prerequisiti, ma livelli di profondità per chi vuole seguire il filo che collega passato, presente e futuri possibili.
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Accelerazione, hybris e ritorno dell’equilibrio
C’è un elemento che attraversa in filigrana tutte le Lezioni dal passato precedenti, senza essere mai stato messo davvero al centro: il limite. Non il limite morale, né quello giuridico, ma il limite come soglia sistemica, come punto oltre il quale un equilibrio smette di essere governabile e inizia a reagire.
Nella modernità avanzata il limite è diventato una parola sospetta. È stato associato alla rinuncia, alla debolezza, all’arretramento. Abbiamo interiorizzato l’idea che crescere significhi espandersi, che risolvere significhi spingere, che governare significhi accelerare. Così il limite non è scomparso: è stato rimosso dal linguaggio. E tutto ciò che viene rimosso, prima o poi, ritorna. Non come concetto, ma come crisi.
Negli ultimi decenni questa rimozione ha assunto una forma culturale precisa: l’accelerazione. Accelerazione economica, tecnologica, informativa, militare, decisionale.
L’accelerazionismo non è più soltanto una corrente teorica o una visione elitaria della Silicon Valley: è diventato un clima antropologico diffuso. Anche chi si dichiara critico dell’accelerazione spesso la replica, perché ne ha interiorizzato il ritmo, il linguaggio, la temporalità. Si reagisce accelerando, si risponde spingendo, si governa aumentando pressione.
Ma i sistemi complessi non funzionano così. Non crescono all’infinito. Non assorbono indefinitamente stress. Funzionano per soglie.
Ed è qui che la storia del lupo di Yellowstone, con la sua apparente semplicità, diventa una metafora potente. Un intervento minimo, quasi marginale, ha modificato l’intero ecosistema: corsi d’acqua, vegetazione, catena alimentare. Non per volontà morale, ma per reazione sistemica. Superata una soglia, l’equilibrio non torna per scelta: torna perché il sistema non ha alternative.
La politica, la geopolitica e perfino la guerra non sono estranee a questa logica.
Anche qui basta poco: una base militare, una linea rossa, una sanzione, una percezione di accerchiamento, una perdita di status simbolico. Quando una soglia viene superata, la risposta smette di essere pienamente politica e diventa strutturale. È in questo passaggio che le strategie razionali iniziano a produrre effetti che non controllano più.
Gli episodi precedenti lo hanno mostrato chiaramente. I traumi imperiali russi non elaborati, la memoria di cancellazione dei Paesi dell’Est, l’impero funzionale occidentale che non si riconosce come tale, la NATO come macchina tecnica che organizza queste paure: tutto questo non è solo geopolitica.
È un ecosistema di soglie psicopolitiche. Ognuno agisce in difesa, ma ogni mossa viene letta dall’altro come superamento di una soglia vitale.
Qui si comprende anche il limite del realismo strategico occidentale. Paradigmi come quello di Mearsheimer spiegano bene il perché dei conflitti: interessi vitali, equilibrio di potenza, zone cuscinetto, reazioni prevedibili delle grandi potenze. Ma spiegano molto meno il come e il fin dove quando entrano in gioco identità ferite, memorie non elaborate, narrazioni totali. Il realismo presume attori capaci di separare interesse e senso, costo e umiliazione. Ma quando questa separazione non esiste più, il costo diventa prova morale e la perdita amputazione storica. È allora che si fanno i conti senza l’oste. E l’oste, ancora una volta, è il limite.
Questo problema non riguarda solo il rapporto tra Occidente e gli “Altri”.
È sempre più evidente come una frattura attraversi lo stesso Occidente. Il dibattito sulla democrazia illiberale, il confronto tra visioni tecnopolitiche come quelle di Musk e Thiel, l’idea che la governance possa essere sostituita da piattaforme, algoritmi o poteri privati iper-veloci, mostrano un nodo irrisolto: chi decide il limite? La legge? Il mercato? L’emergenza? La tecnologia? La sicurezza?
In questo contesto, segnali apparentemente marginali – come numeri, eventi, date, soglie simboliche – assumono un valore diverso. Non come profezie, ma come indicatori di saturazione. Sensibilità al punto di rottura.
Non annunciano il futuro: segnalano che un sistema sta entrando in una zona in cui l’accelerazione smette di produrre ordine e inizia a produrre instabilità.
È qui che emerge una figura spesso ignorata, ma sempre più necessaria: il mediatore del limite. Non l’attivista che accelera tutto in nome di una causa, né l’arretratore che frena tutto per paura.
Il mediatore del limite è colui che riconosce le soglie, traduce tra mondi, interrompe le escalation quando diventano automatiche.
Non è un eroe morale, ma una funzione sistemica. Senza questa funzione, le società oscillano tra hybris e collasso.
In fondo, tutte le Lezioni dal passato convergono qui.
Gli imperi crollano quando non riconoscono più i propri limiti.
Le guerre diventano totali quando nessuno sa più dove fermarsi.
Le democrazie si svuotano quando confondono velocità con decisione, e smettono di coltivare la capacità di immaginare i futuri possibili.
Il problema non è superare un limite: è smettere di vederlo.
E allora sì: il realismo spiega perché i conflitti nascono. Ma senza una cultura del limite non spiega come finiscono, né fin dove possono spingersi. Continuiamo a fare calcoli sempre più sofisticati, mentre ignoriamo l’unico elemento che non entra nei modelli, ma decide gli esiti: la soglia oltre la quale un sistema non collabora più, ma reagisce.
L’oste è ancora lì.
Siamo noi che continuiamo a non vederlo.
I testi richiamati lungo il percorso di questo quinto episodio non sono citazioni di supporto, ma tappe di una stessa esplorazione. Possono essere letti separatamente, ma è nel loro dialogo che il disegno complessivo emerge con maggiore chiarezza.
Per orientarsi nel percorso di questi episodi, questa serie si può leggere in ordine, oppure per temi
Se vuoi ricostruire l’arco completo:
- Lezioni dal passato. Assonanze tra la fine del XIX secolo e l’epoca contemporanea
- Lezioni dal passato – Episodio 2: La pedagogia del riarmo
- Lezioni dal passato – Episodio 3: Lo schiaffo americano, l’ombra di Dugin e l’occasione italiana
- Lezioni dal passato – Episodio 4: Dalla fine degli imperi alla psicopolitica della NATO
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