Lezioni dal passato. Episodio 2: la Pedagogia del riarmo

Quando il disorientamento si (ri)arma. Dalla polveriera di fine Ottocento alla distruzione creatrice di oggi

Ogni epoca di grande salto tecnologico lascia dietro di sé una scia di smarrimento.
Il problema non è solo cosa inventiamo, ma cosa facciamo quando non sappiamo più come governarlo.
Alla fine dell’Ottocento, il disorientamento della modernità industriale si è tradotto in nazionalismi armati.
Oggi rischia di tradursi in un nuovo ciclo di riarmo “necessario”, dopo la pandemia e con l’IA sullo sfondo.
In mezzo, ancora una volta, c’è il fattore umano: il modo in cui trasformiamo la paura in politica.

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Il conflitto ucraino come miccia di una polveriera già pronta

Nel racconto ufficiale, tutto comincia nel 2022: la Russia invade l’Ucraina, l’Europa “si sveglia”, la NATO si ricompatta, i governi riscoprono la parola “difesa”.
Ma se allarghiamo lo sguardo, il quadro cambia: la polveriera era già lì.

Già da anni:

  • il sistema dei trattati di controllo degli armamenti veniva smantellato pezzo per pezzo;
  • la competizione tra Stati Uniti, Russia e Cina si era spostata su spazio, cyber, tecnologie dual use;
  • le spese militari crescevano in modo costante, anche se spesso coperte da un linguaggio tecnico-burocratico.

Il conflitto ucraino ha fatto da miccia, non da origine dell’esplosivo.
Ha reso politicamente dicibile ciò che era già in corso:
il salto da una tendenza di lungo periodo a una emergenza dichiarata, dentro cui il riarmo non è più una opzione, ma l’unico orizzonte percepito come realistico.

Quando il linguaggio prepara l’aumento di spesa.
La pedagogia del riarmo

Se togliamo per un attimo di mezzo i numeri e ascoltiamo solo le parole, il copione del passato è impressionante per ripetitività, oggi.

La retorica dominante suona più o meno così:

  • “la situazione di sicurezza più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale”;
  • “un decennio decisivo per la nostra sopravvivenza strategica”;
  • “la pace non è gratuita: va pagata con più investimenti in difesa”.

Non è solo stile: è una vera e propria pedagogia del riarmo.
Ripetendo all’infinito che non c’è alternativa, il riarmo smette di essere una scelta tra altre: diventa il pavimento, il prerequisito, il “buon senso”.

Su questo, non sono solo. Analisti come Lucio Caracciolo parlano apertamente di una pericolosa realtà sostituita dal linguaggio: una scena pubblica in cui la propaganda viene scambiata per dato di fatto, e in cui il lessico di guerra, con parole chiave come deterrenza, escalation, “decenni decisivi”, si normalizza fino a diventare l’aria che respiriamo.
Altri studiosi, da Zagrebelsky ad editorialisti di area diversa, avvertono che il “lessico del riarmo” non riguarda più solo i bilanci, ma il modo stesso in cui pensiamo la politica: quando le parole della guerra occupano tutta la scena, il conflitto diventa una possibilità sempre presente, quasi ovvia.

Lo vediamo in almeno tre movimenti paralleli:

  1. Il 2% del PIL in spesa militare da eccezione diventa nuovo minimo “virtuoso”, e si inizia a discutere di soglie ancora più alte, come se si trattasse di aggiustare una tassa o un bonus.
  2. Paesi che per decenni avevano costruito la propria identità sulla difesa “solo difensiva”, come il Giappone, sdoganano capacità di contrattacco a lunga gittata, missili da crociera compresi.
  3. La grande industria degli armamenti registra ricavi record, raccontati come naturale effetto di una “modernizzazione necessaria”.

In quasi nessun comunicato si usa la parola “riarmo”, per quello che significa davvero.
Si parla di “adeguamento”, “aggiornamento di capacità”, “salto di qualità” nei sistemi di difesa.
È lo stesso trucco semantico con cui, alla fine dell’Ottocento, le potenze europee spiegavano la corsa alle corazzate e alle nuove artiglierie: non riarmo, ma “mettersi al passo”.

Quando la modernità industriale non sapeva come gestire sé stessa. Fine Ottocento

Se guardiamo alla fine del XIX secolo, l’assonanza diventa più chiara.

In pochi decenni l’Europa vede:

  • elettrificazione, ferrovie mature, telegrafo, chimica industriale;
  • nascita della società di massa, giornali popolari, propaganda nazionale;
  • urbanizzazione accelerata, migrazioni interne, tensioni sociali crescenti.

La Belle Époque raccontata dalle cartoline e dai caffè eleganti convive con un sotterraneo di ansie: paure identitarie, conflitti di classe, imperi che temono il declino, élite che non vogliono perdere il controllo.

Le nuove tecnologie militari diventano la versione armata di questa modernità inquieta:

  • corazzate come simboli galleggianti di prestigio;
  • artiglierie a lunga gittata come proiezione tecnica della volontà di potenza;
  • mobilitazione ferroviaria come promessa di “guerra breve e risolutiva”.

L’errore, col senno di poi, non è stato inventare quelle tecnologie, ma accettare che la loro applicazione militare fosse la via più semplice per “rimettere ordine” nel disorientamento creato dalla modernità.

Quella polveriera esplode nel 1914, e dopo una ventina d’anni di tregua instabile, di crisi e di regimi autoritari, esplode di nuovo nel 1939.
Non a caso molti storici parlano di una “seconda guerra dei trent’anni” (1914–1945): due atti di una stessa crisi, tenuti insieme da una pace che pace non era.

Oggi. Il salto tecnologico digitale e disorientamento strutturale

Oggi il salto tecnologico ha altri nomi:

  • intelligenza artificiale, automazione, droni, guerra cibernetica;
  • piattaforme digitali che ridisegnano lavoro, informazione, relazioni sociali;
  • seconda rivoluzione quantistica all’orizzonte.

Il risultato, però, è un familiare disallineamento:

  • la tecnologia corre a una velocità che la maggioranza delle persone, e la stessa classe politica, non riesce a comprendere davvero;
  • i vecchi riferimenti culturali, ideologici ed economici perdono presa;
  • cresce una sensazione diffusa di precarietà e smarrimento.

È qui che la mia intuizione si colloca:
quando la società entra in uno stato di disorientamento strutturale, la politica tende a cercare leve che diano l’impressione di riprendere il controllo.
La leva militare è una delle più antiche e, purtroppo, delle più facili da comunicare

  • più nemici e potenziali aggressori
  • più confini;
  • più deterrenza;
  • più spesa in difesa come “assicurazione” contro un mondo incomprensibile.

In assenza di un’elaborazione culturale profonda del salto tecnologico, il rischio è che la risposta prevalente sia:
se non capiamo come governare il mondo, proviamo almeno a minacciare chi lo abita.

La Distruzione Creatrice ha visto la pandemia come acceleratore del nuovo ciclo

A questo quadro va aggiunto un elemento che rende la fase attuale ancora più turbolenta: la pandemia come banco di prova per un gigantesco strappo schumpeteriano.

Schumpeter oggi: quando la “distruzione creatrice” passa anche per il riarmo

Joseph Schumpeter chiamava “distruzione creatrice” quel processo per cui il capitalismo, innovando, distrugge costantemente strutture economiche esistenti per crearne di nuove. È un meccanismo neutro solo in teoria: nella realtà significa vite spezzate, lavori che spariscono, territori che decadono mentre altri si arricchiscono.
La pandemia ha funzionato come una distruzione creatrice non programmata:
ha bloccato catene di approvvigionamento, bruciato interi modelli di business, accelerato in pochi mesi smart working, digitalizzazione forzata, automazione.
Dopo lo shock sanitario, è iniziata la fase in cui qualcuno deve decidere su cosa ricostruire.
È qui che il discorso sulla sicurezza diventa centrale:
sicurezza sanitaria → sicurezza delle filiere → sicurezza energetica → sicurezza militare.
Soldi pubblici enormi vengono dirottati verso infrastrutture considerate “strategiche”: digitale, transizione energetica, tecnologie dual use, difesa.
In questo senso, il riarmo non è solo risposta alla minaccia percepita, ma anche motore di un nuovo ciclo di accumulazione: una grande politica industriale della sicurezza, presentata come inevitabile.
Leggere la fase attuale anche con gli occhiali di Schumpeter non significa dire che “qualcuno ha organizzato tutto”, ma riconoscere che la distruzione creatrice post-pandemia ha aperto uno spazio: e quel vuoto viene riempito, tra le altre cose, da un’espansione del complesso militare-industriale.

Se mettiamo insieme:

  • salto tecnologico digitale,
  • disorientamento sociale,
  • distruzione creatrice accelerata dalla pandemia,
  • competizione tra grandi potenze,

il conflitto ucraino appare sempre di più come l’evento che legittima pubblicamente una direzione che il sistema aveva già imboccato: usare la sicurezza in tutte le sue declinazioni come giustificazione di un nuovo ciclo di investimenti, militari inclusi.

Non è il 1914, ma l’eco è riconoscibile

Per onestà intellettuale, è importante ribadire una cosa: non stiamo rifacendo il 1914 in fotocopia.

  • C’è la deterrenza nucleare, che rende una guerra totale diretta tra grandi potenze molto meno probabile. [ma non impossibile]
  • Esistono istituzioni internazionali, interdipendenze economiche, regimi di controllo, per quanto indeboliti.
  • La guerra si spacchetta in conflitti regionali, guerre per procura, sanzioni, cyberattacchi, crisi energetiche pilotate.

L’assonanza con la fine dell’Ottocento non è nel finale già scritto, ma nella logica mentale:

  • allora, la modernità industriale e il colonialismo avevano generato un ordine che non voleva riconoscere i propri limiti e rifiutava il riequilibrio;
  • oggi, la modernità digitale e finanziaria fatica ad accettare il multipolarismo e la perdita di centralità dell’Occidente.

In mezzo, torna la tentazione antica: affidare alle armi il compito di sistemare ciò che la politica e la cultura non riescono più a governare.

Fattore umano. Spezziamo il nesso disorientamento → riarmo

Se accettiamo questa chiave di lettura – disorientamento strutturale + distruzione creatrice + riarmo come risposta simbolica, allora il punto non è solo “quanto” si spende in difesa, ma quanto spazio resta per immaginare risposte diverse.

Domande scomode ma inevitabili:

  • che tipo di alfabetizzazione geopolitica e tecnologica offriamo ai cittadini, al di là degli slogan?
  • che ruolo diamo a chi prova a fare da “Decimo Uomo”, mettendo in discussione l’idea che il riarmo sia l’unica razionalità possibile?
  • quali narrative alternative mettiamo in circolo su sicurezza, cooperazione, gestione del limite?

Perché la verità, per quanto scomoda, è che non sono i missili a decidere da soli il loro destino.
Sono le parole, i discorsi, le paure che li rendono inevitabili o li ricollocano dentro un altro quadro.

Alla fine, il cuore del problema resta umano: quando una società disorientata si guarda allo specchio nei propri governanti e vede solo la scorciatoia della forza, la storia accelera nella direzione sbagliata.
Riconoscere il nesso tra salto tecnologico, distruzione creatrice e riarmo non serve a cadere nel fatalismo, ma a fare l’unica cosa che possiamo ancora permetterci: intervenire sul linguaggio prima che sia il linguaggio della guerra a decidere per noi.

Episodio 1 – Lezioni del passato: Lezioni dal passato. Assonanze tra la fine del XIX Secolo e l’epoca contemporanea..?


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