Homo Sapiens, Homo Sapiens Sapiens… Homo Inutilis?

Nel novembre 2025 la cinese UBTech Robotics ha annunciato di aver avviato la produzione e consegna di massa del suo robot umanoide industriale Walker S2. Secondo il comunicato ufficiale si tratta della “prima consegna di massa al mondo di robot umanoidi”: diverse centinaia di unità sono già state spedite e l’azienda punta a raggiungere i 500 robot consegnati entro fine anno, con una capacità produttiva che dovrebbe salire a 5.000 unità nel 2026 e 10.000 nel 2027.
I Walker S2 sono destinati alle linee di produzione e ai magazzini di grandi gruppi come BYD, Geely Auto, FAW-Volkswagen, Dongfeng Liuzhou Motor e Foxconn, dove svolgeranno compiti ripetitivi in ambito automotive e logistica. La particolarità che ha colpito l’opinione pubblica è il sistema di sostituzione autonoma della batteria: il robot estrae da solo il modulo scarico, ne inserisce uno carico in pochi minuti e torna al lavoro, riducendo quasi a zero le pause per la ricarica.
La scena, nel video diffuso dall’azienda, sembra uscita da un film: file di umanoidi bianchi che marciano ordinati in un capannone, si “fermano a fare il pieno” cambiandosi la batteria da soli e poi ripartono verso le fabbriche. Ma dietro l’effetto speciale c’è una domanda molto semplice e molto scomoda: che cosa succede agli esseri umani quando il sistema industriale scopre di poter fare a meno di una parte della manodopera?

La Cina non sta solo mostrando al mondo i suoi nuovi robot: sta mettendo in scena, in modo plastico, una trasformazione che riguarda tutti. Da un lato un Paese che invecchia, che vuole alzare il tenore di vita di un miliardo e mezzo di persone e salire di livello tecnologico; dall’altro macchine che promettono di tenere in moto la produzione con meno corpi umani in catena. È a questo punto che la notizia Ubtech smette di essere cronaca tecnologica e diventa una porta d’ingresso per una domanda più ampia: come Cina, Stati Uniti ed Europa stanno decidendo il destino dei nuovi “superflui” dell’economia automatizzata?


Gambe che si muovono, le braccia che afferrano, le batterie che si cambiano da sole: è l’immagine di un passaggio di consegne.
Nel video le vediamo così, queste macchine: in fila, bianche, quasi anonime, che marciano in un grande capannone, si fermano pochi minuti per “fare il pieno” cambiandosi da sole il modulo batteria e poi ripartono verso le linee di produzione.

Giusto un secolo dopo il futuro oscuro immaginato da Metropolis, il cerchio si chiude: quella distopia del lavoro in catena, che nel giro di pochi anni sarebbe diventata la realtà del Novecento industriale, oggi, nel video dei robot umanoidi, non appare più come un’anticipazione del domani ma come un presente in cui la produzione può continuare a crescere anche con meno corpi umani in catena di montaggio.
La visione di Lang, con uomini-robot condannati a un lavoro ripetitivo, pesante, scandito dal cronometro, si rovescia: non è più un futuro immaginato ma un presente concreto. Gli uomini-robot sono diventati robot veri, di metallo e silicio, mentre gli uomini in carne e ossa rischiano di scivolare nel ruolo più inquietante di tutti, quello dell’Homo inutilis.

La Cina
entra in scena proprio qui. Non è un Paese che ha esaurito la manodopera: per decenni ha alimentato il proprio ruolo di “fabbrica del mondo” contando sulla disponibilità di corpi giovani a basso costo. Ma oggi quella riserva si sta assottigliando: la popolazione invecchia, le nuove generazioni non vogliono più vivere in dormitorio per stringere bulloni e il governo ha bisogno di salire di livello tecnologico senza perdere potenza industriale. I robot umanoidi non sono un vezzo futurista: sono l’immagine concreta di una scelta politica ed economica.

La promessa, nella narrazione ufficiale, è rassicurante: una parte degli operai diventerà tecnico, manutentore, programmatore; altri verranno assorbiti nei servizi, nella cura degli anziani, in una società che invecchia e ha bisogno di assistenza. Intorno, lo slogan della “prosperità comune” prova a cucire le crepe: sopporta il sacrificio individuale, ti diciamo, perché serve alla forza collettiva del Paese. Ma resta una zona d’ombra: chi è troppo anziano per riconvertirsi, troppo poco istruito, troppo lontano dai poli di sviluppo rischia di scivolare nella categoria degli invisibili: persone che il sistema non sa più come usare, ma che non può nemmeno permettersi di vedere troppo chiaramente.

Dall’altra parte dell’oceano,
negli Stati Uniti, la scena è diversa, ma il tema è lo stesso. L’arrivo di robot e intelligenza artificiale viene raccontato come l’ennesimo capitolo della grande storia del progresso: prima il trattore, poi il computer, ora l’algoritmo e il braccio meccanico. “Alcuni lavori spariranno, ma ne nasceranno altri”, è il ritornello.
Per chi ha titoli di studio, competenze digitali, capitale sociale, è spesso vero: il nuovo mondo crea ruoli ben pagati nei software, nei dati, nella finanza, nell’innovazione.

Ma c’è un’altra America, quella che scivola fuori campo: ex operai, ceto medio impoverito, città svuotate dalla deindustrializzazione. L’automazione non li libera dalla fatica: li spinge verso il basso, dentro una gig economy fatta di consegne, turni spezzati, lavori a cottimo intermediati da piattaforme.
Gli “inutili” del capitalismo americano non vengono repressi come in un sistema autoritario: vengono semplicemente lasciati cadere, e poi riappaiono sotto altre forme: dipendenze, malessere mentale, rabbia politica. Il sistema non ha un progetto collettivo per loro, solo una fede ostinata nel fatto che, in qualche modo, il mercato prima o poi aggiusterà tutto.

L’Europa,
come spesso accade, cerca di camminare su un filo teso tra queste due polarità. Da un lato difende welfare, diritti, contratti, formazione: rallenta l’impatto dell’automazione, prova a governarla con norme, fondi, patti sociali. Parla di “transizione giusta”: digitalizzazione sì, ma senza lasciare sul marciapiede chi non riesce a tenere il passo. Dall’altro lato questa prudenza ha un costo: mentre si discute di regolamenti e principi, altri corrono più veloci. L’adozione delle tecnologie più avanzate è spesso lenta, frammentata, frenata da burocrazie e paure politiche. Intanto il patto sociale europeo viene messo alla prova da una demografia che invecchia, da una crescita debole, da bilanci pubblici appesantiti. Il rischio è di trasformarsi in un continente che difende con orgoglio un modello sociale, ma fatica sempre più a finanziarlo. Gli “inutili” qui non esplodono come massa compatta, ma si sedimentano: giovani che non trovano collocazione, Neet, lavoratori a tempo determinato eterno, un ceto medio che sente di scivolare piano piano verso il basso senza un vero salto di qualità tecnologico a compensare

Se mettiamo insieme queste tre immagini, con la Cina che cerca di assorbire e controllare; gli Stati Uniti che lasciano cadere e convivono con le ferite; l’Europa che ammortizza ma rischia il logoramento, i robot di Ubtech smettono di essere una curiosità tecnologica e diventano un simbolo.
Non sono solo macchine che camminano: sono una cartolina dal futuro prossimo, un promemoria muto che ci chiede quanto siamo disposti a guardare in faccia la nascita di una nuova categoria di persone: i superflui, gli Uomini inutili

Continuare a domandarci soltanto se “i robot ci ruberanno il lavoro” forse non basta più.
La domanda vera è che cosa vogliamo farcene del tempo e dell’intelligenza umana che la tecnologia potrebbe liberare. Possiamo limitarci a usarla per comprimere i costi, licenziare più in fretta, aumentare i margini.
Oppure possiamo provare a spostare il fuoco: riconoscere che esistono lavori di cura, educazione, cultura, rigenerazione dei legami sociali che non sono accessori, ma il cuore di una società che non vuole trasformare una parte dei propri membri in scarto.

I robot che si cambiano la batteria da soli, in fondo, ci pongono una domanda profondamente umana: se le macchine possono occuparsi di una parte della fatica, abbiamo il coraggio di ripensare che cosa significa “essere utili” gli uni agli altri?
O lasceremo che siano un algoritmo, un piano industriale, un consiglio di amministrazione a decidere chi è ancora necessario e chi no?

Fin qui abbiamo guardato l’immagine: gambe di metallo che avanzano, ombre umane che arretrano. Ma questa è solo la soglia.
Nella seconda parte proveremo ad allargare lo sguardo e a capire che cosa significa davvero, per la Cina, per gli Stati Uniti e per l’Europa, abitare un mondo in cui la figura dell’Homo inutilis smette di essere una provocazione teorica e diventa una possibilità concreta.

Fine parte 1


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