Le sorgenti dimenticate di Santa Lucia

Serie: l’acqua, la memoria e il reale – Episodio 0
Questo articolo è il punto di ingresso di un piccolo percorso in più episodi su acqua, memoria e realtà.
Partiamo da un luogo concreto con le sue sorgenti di Santa Lucia, la geologia del Monte Echia, la città d’acqua nascosta sotto Napoli, per poi spostarci, negli episodi successivi, su un altro livello: come funziona davvero l’acqua dal punto di vista della fisica, che cosa significa parlare (o non parlare) di “memoria dell’acqua” e in che modo tutto questo si intreccia con il pensiero noetico e la rivoluzione quantistica


A Santa Lucia non scorre solo il traffico. Scorre una memoria liquida che abbiamo quasi cancellato.
Oggi vediamo alberghi, ristoranti, luci sul lungomare. Ma per secoli, sulla banchina c’erano tre cannelle di acqua sulfurea, sorgenti “speciali” che attiravano napoletani e forestieri per le loro proprietà curative. Intorno, una costellazione di vene d’acqua ferrata che affioravano in cortili, palazzi, persino nei sotterranei delle dimore nobiliari.
Sotto la cartolina, c’era, e c’è ancora, una città d’acqua.
Le cronache la intercettano a partire dal Rinascimento, ma geologicamente quelle sorgenti sono molto più antiche. È più che plausibile che fossero note e sfruttate anche prima: in epoca romana, tardo-antica, medievale. Il punto è che la memoria scritta arriva tardi, mentre la roccia e l’acqua lavorano in silenzio da millenni.
Nella seconda metà dell’Ottocento questa geografia naturale cambia forma: nasce il “Bivarello”, una nuova fonte collocata vicino alla Cavallerizza del Palazzo Reale. L’acqua, che prima emergeva in punti diffusi e popolari, viene incanalata, spostata, incorniciata da un leone in terracotta. Non è più solo risorsa: diventa scena, parte dell’architettura del potere.
Poi, lentamente, arriva il Novecento. Le sorgenti si chiudono, si privatizzano, spariscono dietro cancelli, garage, locali tecnici. Della città d’acqua restano solo toponimi, racconti d’anziani, qualche documento ostinato e qualche progetto recente di riscoperta.
Oggi, mentre parliamo di digital twin, realtà aumentata e metaversi artificiali, ci dimentichiamo che Napoli è già un metaverso reale: un sistema di livelli sovrapposti, dove ciò che vediamo in superficie è solo l’ultima skin di una storia lunghissima.
Le sorgenti di Santa Lucia e del Chiatamone non sono nostalgia: sono un caso di studio perfetto per capire come si trasforma un bene comune, come si riscrive il paesaggio quando potere, economia e oblio si alleano. E forse anche per immaginare un diverso modo di usare la tecnologia: non per fuggire dalla realtà, ma per renderla di nuovo visibile.

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Napoli, il metaverso reale
episodio acqua

Nel celebrare i 2500 anni della fondazione di Neapolis, siamo portati a guardare monumenti, date, grandi eventi. Ma ogni città ha anche una storia più discreta, fatta di elementi che scorrono sotto la superficie e che raramente finiscono nelle cerimonie ufficiali.
A Napoli, uno di questi fili nascosti è l’acqua: soprattutto l’acqua che sale dal ventre del Monte Echia e affiora, da secoli, tra Santa Lucia e Chiatamone.

Una città d’acqua lunga secoli

Quando pensiamo a Santa Lucia, la mente corre alle immagini da cartolina: il Castel dell’Ovo, il golfo, le barche. Ma se proviamo a “scorrere” la città come un layer digitale, attivando il livello sottosuolo, il paesaggio cambia.

Il protagonista silenzioso è il Monte Echia, la rupe di tufo su cui si installa la prima Neapolis. Dentro quella roccia, da molto prima che comparissero i nostri palazzi, lavorano le acque minerali: sulfuree, ferrate, acidule. Nascono lì e raggiungono la superficie lungo linee di frattura che affiorano proprio tra Santa Lucia e Chiatamone.

Dal punto di vista geologico, non c’è nulla di “moderno” in questa storia: le sorgenti sono antiche quanto il corpo roccioso che le ospita. Se nel Rinascimento le cronache registrano fontane e cannelle in quell’area, è ragionevole pensare che quelle stesse acque, o le loro “antenate”, fossero note e usate anche secoli prima. La geologia ha tempi lunghi: non inventa sorgenti ex novo per compiacere gli umanisti. Quello che cambia, da un’epoca all’altra, è come la città si organizza attorno a queste acque: chi le controlla, chi può accedervi, come vengono raccontate.

Cronologia essenziale delle sorgenti di Santa Lucia

Età antica (ipotesi plausibile)

  • La presenza di sorgenti sulfuree e ferrate ai piedi del Monte Echia è un fatto geologico.
  • È plausibile che in epoca romana e tardo-antica alcune di queste acque fossero conosciute e sfruttate, magari in forma di piccoli bagni o usi rituali/domestici.
  • Non abbiamo però testi latini che citino in modo diretto le sorgenti di Santa Lucia o del Chiatamone: qui la continuità con l’antico è una ricostruzione moderna, non una citazione letterale.

XV–XVI secolo

  • Le cronache cittadine iniziano a menzionare una grande fontana di acqua freschissima presso il Chiatamone.
  • L’area è riconosciuta come luogo di acque “speciali”, usate a scopo curativo.

XVII–XVIII secolo

  • Guide e descrizioni di Napoli parlano esplicitamente di acque ferrate e sulfuree alla fine della spiaggia di Santa Lucia e alle radici del Monte Echia.
  • Le sorgenti diventano parte dell’immaginario urbano: “acque salutari”, “acque lucullane”, legate alla vicina villa di Lucullo per tradizione erudita.

Seconda metà XIX secolo

  • Viene sistemata presso la Cavallerizza del Palazzo Reale la nuova fonte detta “Bivarello”.
  • L’acqua, canalizzata, sgorga da un leone in terracotta: è l’ingresso del potere nella regia delle sorgenti.

Novecento

  • Progressiva chiusura, privatizzazione e inglobamento delle sorgenti nelle nuove costruzioni.
  • L’area di Santa Lucia–Chiatamone viene ridisegnata da alberghi, palazzi, infrastrutture: la città d’acqua scende di livello, nel sottosuolo.

Oggi

  • Studi, associazioni e amministrazione iniziano un lavoro di riscoperta e valorizzazione delle sorgenti del Chiatamone e dell’acqua “suffregna”.
  • La narrazione di queste acque si intreccia con l’idea di Napoli come metaverso reale, fatto di livelli visibili e nascosti.

Dalle grotte antiche alle cronache rinascimentali

Non abbiamo un autore latino che ci dica: “qui, a Santa Lucia, sgorga una certa acqua sulfurea chiamata così e così”. Ma abbiamo tre elementi che, messi in fila, raccontano una storia credibile:

  1. La roccia
    Monte Echia è un serbatoio naturale: l’acqua piovana penetra, si carica di minerali, risale lungo fratture e vuoti. Le sorgenti non nascono nel Quattrocento: arrivano da molto prima.
  2. Le cavità
    Per secoli, le grotte nelle viscere del Monte Echia,  le famose grotte “platamonie”,  sono state usate come rifugio dalla calura, luogo di conviti, spazio liminale tra città e natura. Alcuni autori moderni immaginano che in età romana una parte di queste cavità sia stata utilizzata anche come piccoli bagni sfruttando acque termali naturali. È un’ipotesi suggestiva, fondata sulla morfologia del luogo e sulla vocazione termale del golfo, ma resta un’ipotesi: non abbiamo la prenotazione scritta del patrizio romano che prenota la sua giornata alle (plausibili) terme del Chiatamone.
  3. Le parole
    È nel tardo Medioevo e poi nel Rinascimento che la memoria scritta comincia a fissare il quadro: cronisti e guide locali parlano di acque freschissime, ferrate, sulfuree alla fine della spiaggia di Santa Lucia, all’inizio del Chiatamone, ai piedi del Monte Echia. Quelle righe non inventano le sorgenti: le intercettano. Registrano qualcosa che la città conosceva già, perché lo usava.

Qui entra il nodo interessante: la storia naturale delle acque è molto più lunga della storia scritta che le racconta.
Gli studi geologici e idrogeologici su Monte Echia mostrano che il banco di Tufo Giallo Napoletano che ospita queste sorgenti si è formato circa 15.000 anni fa e che ai suoi bordi, fino a tempi recenti, affioravano numerose sorgenti sulfuree e ferruginose alimentate da falde profonde.
Proprio la natura vulcanica e molto porosa del tufo, fratturato da antiche linee di faglia, permette alle acque piovane di infiltrarsi in profondità, arricchirsi di anidride carbonica e sali minerali legati al vulcanismo dell’area e poi risalire lungo queste fratture verso il piede del monte, dove vengono intercettate dal versante a picco su Santa Lucia e Chiatamone sotto forma di sorgenti minerali, in parte ferruginose, talvolta anche solfuree.
È quindi ragionevole pensare che le acque minerali di Santa Lucia–Chiatamone siano presenti nell’area da molto prima delle cronache rinascimentali che iniziano a nominarle: gli umanisti del Quattro-Cinquecento ci dicono solo che, a un certo punto, qualcuno ha cominciato a prenderne nota.

Il “Bivarello”
quando l’acqua entra in sceneggiatura

Nella seconda metà dell’Ottocento accade un passaggio simbolico che il documento di Diodato Colonnesi, quello da cui è partita questa mia riflessione, registra con discrezione: la nascita del “Bivarello”.

Le carte che ne documentavano la realizzazione sono andate distrutte nell’incendio dell’Archivio municipale del 1946.
Restano:

  • la memoria orale,
  • qualche traccia iconografica (i dipinti settecenteschi in cui il Bivarello ancora non c’è),
  • e la descrizione di una fontana addossata al muro della Cavallerizza del Palazzo Reale, da cui sgorga acqua “salutare” attraverso la bocca di un leone in terracotta.

Il gesto è chiaro:

  • l’acqua, che prima emergeva in punti diffusi (banchina, cortili, grotte), viene canalizzata;
  • il suo punto di affioramento viene spostato e collocato sul confine del Palazzo;
  • la sorgente diventa dispositivo scenico: una piccola architettura che integra salute, prestigio, controllo.

Il potere non crea la risorsa: la intercetta e la mette in scena.
Il Bivarello è l’esempio concreto di come una sorgente possa essere “riscritta” urbanisticamente: dalla geologia all’idraulica, dall’idraulica al linguaggio del potere.

Novecento, sequestri silenziosi del bene comune

Il Novecento completa il processo in modo più brutale, ma meno visibile. Niente più leoni di terracotta da ricordare:

  • le sorgenti vengono inglobate nelle nuove costruzioni;
  • gli affacci a mare cambiano forma, compaiono alberghi e palazzi;
  • gli spazi di margine diventano parcheggi, garage, locali tecnici.

La città d’acqua non scompare: semplicemente, non è più nostra.
Scorre dietro portoni chiusi, nelle viscere di edifici privati, nelle proprietà pubbliche rese inaccessibili. Resiste nei racconti degli anziani, nelle ricerche di pochi studiosi, nei documenti di associazioni che si ostinano a ricordare.

È un caso da manuale di come un bene comune possa essere sequestrato senza bisogno di proclami:

  • non viene negato,
  • viene solo spostato di piano: da ciò che tutti vedono a ciò che pochi possono raggiungere.

Napoli come metaverso reale …
e l’acqua come livello nascosto

Quando parliamo di metaverso, pensiamo subito a visori, avatar, mondi virtuali. Ma se prendiamo sul serio la parola, Napoli è già un metaverso reale:

  • un livello di superficie fatto di traffico, dehors, selfie point;
  • un livello intermedio fatto di cortili, scale, androni, dove qualcosa delle vecchie trame resiste;
  • un livello sotterraneo fatto di cave, cunicoli, cisterne, sorgenti;
  • un livello simbolico fatto di leggende, toponimi, memorie parziali;
  • un livello politico fatto di decisioni, omissioni, archivi bruciati.

Le sorgenti di Santa Lucia e del Chiatamone sono uno dei “livelli nascosti” di questo metaverso. Per farle comparire non servono occhiali VR: servono mappe, storie, dati, e oggi anche strumenti digitali che permettano di modellare la città in 3D/4D, integrando geologia, storia e uso contemporaneo.

Un digital twin idrogeologico-culturale del Monte Echia, ad esempio, non sarebbe solo un giocattolo da ingegnere:

  • potrebbe restituire visivamente il percorso delle acque nel sottosuolo;
  • collegare le antiche sorgenti ai luoghi attuali (palazzi, alberghi, strade);
  • diventare un’interfaccia narrativa per spiegare a cittadini e visitatori che cosa c’era, e che cosa c’è ancora, sotto i loro passi.

Non è solo una suggestione narrativa. Una parte della ricerca urbanistica più recente ha iniziato a trattare il sottosuolo napoletano, da Monte Echia al Rione Sanità, come un vero secondo livello di città da reintegrare nella progettazione.
In uno studio del 2023, ad esempio, l’architetta Chiara Barone propone di leggere gallerie borboniche, cavità archeologiche e spazi ipogei come un unico sistema continuo da connettere alla superficie attraverso micro-innesti architettonici e percorsi museali.
È, in fondo, la stessa intuizione che sta dietro all’idea di “metaverso reale”: non costruire un altrove virtuale, ma riconnettere tra loro i livelli di realtà che Napoli possiede già.

Non un metaverso per fuggire dalla realtà, ma un metaverso per vederla meglio.

Dalla memoria alla proposta

Il testo di Colonnesi, che racconta delle “tre cannelle”, del Bivarello, delle sorgenti private e delle carte bruciate, non è solo una nota di colore storico. È una chiave di accesso.

Ci ricorda che:

  • le risorse naturali non sono neutre: diventano beni comuni o beni sequestrati a seconda di come le organizziamo;
  • la città non è solo pianta e prospetto, ma anche quello che scorre sotto, dietro, ai margini;
  • la continuità storica non è mai lineare: abbiamo buchi di fonti, archivi bruciati, parole che scompaiono, ma la geologia continua a lavorare.

Raccontare oggi le sorgenti di Santa Lucia significa:

  • ricucire almeno in parte la frattura tra storia naturale e storia urbana;
  • proporre un’idea di cultura che non si limita a celebrare il passato, ma lo usa per ripensare la gestione dei beni comuni;
  • usare la cultura digitale e i nuovi linguaggi immersivi non come fuga nel virtuale, ma come strumento di restituzione: rendere di nuovo visibile ciò che il Novecento ha nascosto.

Napoli, in questo senso, è davvero un metaverso reale: non perché sembri un videogioco, ma perché è fatta di livelli che si sovrappongono, si dimenticano, riemergono.

Sta a noi decidere se continuare a scorrere solo il feed della superficie, o se iniziare a cliccare sugli strati più profondi, fino a ritrovare anche nell’acqua una parte di città che abbiamo lasciato indietro.

In un anno in cui celebriamo i 2500 anni di Napoli, ricordare la storia lunga delle sue acque, quelle visibili e quelle nascoste,  significa anche questo: riconoscere che la Città non è fatta solo di pietra e memoria eroica, ma anche di circuiti invisibili che hanno accompagnato, silenziosi, l’intera vicenda di Neapolis.
Se vogliamo immaginare i prossimi secoli, forse dobbiamo proprio ripartire da qui: da ciò che scorre sotto, e che aspetta solo di essere rimesso in relazione con chi la città la abita ogni giorno.


Episodio 0 – Dalle sorgenti alla domanda sull’acqua
Le sorgenti di Santa Lucia e del Chiatamone ci ricordano che esiste una storia naturale dell’acqua – fatta di tufo, faglie, falde profonde, circuiti invisibili che scorrono da millenni – e una storia culturale fatta di potere, oblio, narrazioni urbane.
In mezzo, c’è una terza storia, che è quella che vorrei esplorare nei prossimi episodi: la storia dell’acqua come oggetto fisico misterioso (perché non abbiamo ancora una teoria completa che ne spieghi il comportamento), come medium di informazione e, per qualcuno, come metafora di una memoria diffusa che attraversa corpi, città e paesaggi interiori.
Da qui partirà l’Episodio I – L’acqua che non sappiamo ancora spiegare, dove proverò a raccontare cosa dicono oggi fisica, biologia e teoria quantistica su questo liquido apparentemente banale, ma tutt’altro che semplice.

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