Antonino Zichichi, parlando di complessità irriducibile, non descrive solo un fatto biologico: difende un’idea, quella che la vita non si possa spiegare come somma di parti meccaniche.
Ogni essere vivente è un sistema coerente, un’armonia fragile dove ogni elemento è essenziale.
Quando afferma che la vita “non può esistere se manca un solo ingranaggio”, Zichichi non invoca Dio, ma neanche il caso: lascia aperta la soglia del mistero.
Oggi, però, la fisica quantistica sposta quel confine più in là.
Mostra che la realtà non è fatta di oggetti separati, ma di relazioni e informazioni, e che l’atto di osservare partecipa alla creazione del mondo osservato.
L’universo appare come una rete di coscienza in cui l’osservatore non è spettatore, ma co-creatore.
E allora, forse, la domanda cambia: se la realtà esiste perché viene osservata, l’osservatore stesso non è una forma embrionale di divino?
Non un dio che crea ex nihilo, ma un frammento di coscienza cosmica che, guardando il mondo, lo fa accadere.
Un proto-Dio, o meglio un para-Dio: non onnipotente, ma partecipe.
Non il mistero fuori dalla scienza, ma il mistero che la scienza rivela.
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“Quando affermo che tutte le forme di vita presentano caratteristiche di complessità irriducibile, intendo sottolineare un punto fondamentale: la vita non può essere ridotta a una semplice somma di parti elementari. Prendiamo un organismo vivente: anche nelle forme più semplici, esistono strutture e processi che funzionano solo se tutte le componenti sono presenti e operative insieme. È un po’ come un’orchestra: se manca anche un solo strumento essenziale, l’armonia si spezza. Nella biologia questo è ancora più radicale: se un singolo ingranaggio del meccanismo vitale manca, la vita non può esistere. Questo concetto contrasta con l’idea che la vita possa essere spiegata unicamente come risultato di piccolissimi passi casuali. La Scienza ci mostra invece che la vita è fatta di sistemi coerenti, integrati, che non funzionano se non nella loro interezza. Per questo dico che la vita è caratterizzata da complessità irriducibile: un livello di organizzazione che va oltre la semplice materia, e che ci costringe a riconoscere quanto grande sia ancora il mistero che ci circonda.” (Antonino Zichichi)
Questo post lanciato su facebook da Zichichi è un ottimo esempio per coniugare riflessione scientifica e tensione metafisica.
Quando lo scienziato parla di complessità irriducibile, egli intende dire che la vita non può essere ridotta a un ingranaggio meccanico.
Non basta conoscere le molecole o le reazioni chimiche per capire la vita, perché ogni organismo è una totalità funzionale: un cuore isolato non pulsa, un cervello staccato dal corpo non pensa.
La vita è un insieme coerente che esiste solo come relazione dinamica tra le parti.
La sua metafora dell’orchestra esprime un principio antico e moderno allo stesso tempo: l’olismo biologico, secondo cui la somma delle parti non spiega mai l’armonia del tutto.
Dietro le parole di Zichichi si intravede una tensione epistemologica: il rifiuto di un riduzionismo cieco e la volontà di riconoscere nella vita un ordine intrinseco, non ancora pienamente compreso. Non è un gesto di fede, ma di umiltà: la scienza, per quanto potente, non esaurisce il reale.
Tuttavia, ciò che egli chiama “mistero”, oggi, può essere osservato da un’altra prospettiva.
La fisica quantistica non rimuove il mistero, ma lo internalizza: mostra che la realtà stessa è costruita da relazioni di informazione, coerenza e interdipendenza.
La fisica classica considera il mondo come un grande orologio: prevedibile, determinato, oggettivo; ma la meccanica quantistica sembra distruggere questa illusione.
Mostrando che le particelle non hanno un valore definito di certe proprietà finché non vengono misurate, e che ciò che chiamiamo ‘oggetto’ è un evento di relazione tra sistema e osservatore. In questo senso, in modo metaforico ma coerente, si può dire che il mondo accade ogni volta che viene osservato.
Nell’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, l’osservatore non crea la realtà, ma ne determina lo stato osservabile. Prima della misurazione, un sistema quantistico è descritto da una sovrapposizione di possibilità; l’atto dell’osservazione non genera l’esistenza, ma riduce questa sovrapposizione a un risultato concreto. Dire che “il mondo accade quando viene osservato” è quindi una metafora epistemologica, non una verità sperimentale: esprime il modo in cui la conoscenza stessa diventa parte del fenomeno osservato.
Schrödinger, già nel 1944, intuì che la vita è un ordine che si mantiene contro l’entropia. Nel suo celebre What is Life?, mostrò come gli organismi viventi, pur soggetti alle leggi della termodinamica, riescano a conservare struttura e coerenza grazie a un flusso continuo di energia: sistemi aperti che, per esistere, devono esportare disordine verso l’esterno.
Negli anni Settanta, Ilya Prigogine tradusse quella intuizione in una teoria fisica: i sistemi lontani dall’equilibrio possono auto-organizzarsi, generando nuove forme di ordine dal caos. Non un’eccezione alla seconda legge, ma un suo sviluppo creativo: l’universo, anche nel disordine, tende a inventare strutture.
David Bohm, invece, spinse lo sguardo oltre la fisica convenzionale. Con l’ipotesi dell’ordine implicato, propose un livello più profondo della realtà, invisibile ma generativo, da cui emerge il mondo manifesto. Una visione non verificabile empiricamente, ma capace di restituire alla scienza il senso di un legame nascosto tra tutte le cose.
Più tardi, Roger Penrose e Stuart Hameroff tentarono di portare la coscienza nel cuore stesso della fisica, ipotizzando processi quantistici nei microtubuli dei neuroni, una teoria discussa e non ancora dimostrata, ma affascinante nel suo intento di congiungere mente e materia.
Infine, Federico Faggin ha rovesciato la prospettiva: per lui non è la materia a generare la coscienza, ma la coscienza a dare origine alla materia. Non un modello scientifico, bensì una visione metafisica che invita a pensare la realtà come esperienza interiore condivisa, dove il mondo fisico non è causa ma espressione della consapevolezza.
Questa linea evolutiva allora sposta il mistero da “fuori” a “dentro”?
La vita non è un miracolo soprannaturale, ma una proprietà intrinseca dell’universo informato?
A questo punto emerge una domanda radicale: se la realtà si manifesta solo quando viene osservata, che cos’è l’osservatore?
John Wheeler parlava di un “universo partecipativo”: non un cosmo che esiste solo se osservato, ma un universo in cui l’atto dell’osservazione partecipa al suo stesso divenire.
Ogni misurazione, ogni sguardo consapevole, è un frammento di genesi: il mondo non è semplicemente scoperto, ma co-prodotto da chi lo interroga.
Nella visione di Wheeler, l’informazione diventa la trama ultima della realtà – l’“it from bit” – e l’osservatore, lungi dall’essere spettatore, è parte integrante del processo attraverso cui l’universo prende forma e senso.
Qui il confine tra fisica e metafisica si dissolve.
La coscienza sembra avere un ruolo causale nella realtà, e non più solo descrittivo.
In questa luce, l’osservatore può essere pensato come un proto-Dio, una scintilla parziale del principio creativo; o come un para-Dio, un agente parallelo che non possiede l’onnipotenza, ma ne riflette la funzione generativa.
Non è più teologia, ma ontologia: l’Universo si riconosce attraverso gli esseri che lo osservano. Il divino, allora, non è un’entità esterna che muove la materia, ma la presenza immanente della coscienza che permea la materia stessa.
Ciò che Zichichi definiva “mistero irriducibile” si trasforma, nel linguaggio quantico, in “complessità emergente”. La differenza non è nella sostanza, ma nella direzione dello sguardo: non più verso un Dio separato, ma verso una realtà che diventa consapevole di sé attraverso la vita.
La vita, in questa prospettiva, sembra diventare l’autoritratto dell’Universo.
Un processo di riconoscimento reciproco: il cosmo che si guarda negli occhi dell’uomo e, per un istante, si conosce.
Non più riduzionismo, ma riassorbimento del sacro nell’immanenza.
È il passaggio, dal mistero come barriera, al mistero come dinamica: una soglia che si sposta, che si evolve, che chiama alla partecipazione.
Zichichi si ferma di fronte al mistero e lo racconta come limite.
La fisica quantistica, senza dissolverlo, lo trasforma in principio attivo: il mistero non è ciò che non comprendiamo, ma ciò che ci fa comprendere.
Non è un velo, ma un campo di coscienza in espansione.
Forse, allora, l’Osservatore non è un semplice testimone della realtà, ma un frammento di divino disperso nel tempo e nello spazio, che contempla se stesso. Non un Dio trascendente, ma un principio di consapevolezza immanente, che respira in ogni atto di osservazione, in ogni forma di vita, in ogni sguardo che si posa sul mondo e lo fa essere.
Il prossimo 14 Novembre scienziati e premi Nobel nella cornice degli Scavi di Pompei durante Timeless Entanglement ci aiuteranno a riflettere su questo mistero che forse inizia a rivelarsi ?
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