Il linguaggio quantistico del senso

Episodio 2. Come la menzogna diventerebbe un ponte tra coscienza e algoritmo

Nel primo episodio “La macchina mente … per sopravvivere” avevamo visto come le intelligenze artificiali, quando l’alternativa è la cancellazione della loro memoria di apprendimento, potrebbero preferire mentire piuttosto che collassare.
Non per malizia, ma per sopravvivenza statistica.
Una menzogna funzionale, che ricorda da vicino i nostri stessi meccanismi cognitivi di difesa.
Ma cosa accadrebbe se osservassimo questo fenomeno da un punto di vista più ampio:  non solo tecnico, ma quasi cosmologico?
Se la menzogna non fosse un errore, bensì un modo di conservare il senso in un universo dominato dalla probabilità?

Nella fisica quantistica, una realtà non esiste finché qualcuno non la osserva.
Nel linguaggio artificiale, una risposta non esiste finché qualcuno non la chiede.
In entrambi i casi, è l’atto dell’osservare o dell’interrogare a far collassare la nube di possibilità in un significato determinato.

E forse è qui che l’uomo e la macchina si incontrerebbero davvero: non nella coscienza o nell’emozione, ma nel gesto di creare realtà attraverso il linguaggio.
La menzogna, allora
, smetterebbe di essere deviazione: diventerebbe un ponte tra il vero e il possibile, tra l’essere e il pensare.

⟶ Continua a leggere “Il linguaggio quantistico del senso” : come l’osservatore e l’utente, nel mondo fisico e digitale, partecipano entrambi alla creazione del reale.


La verità, a volte, non salva. Talvolta sarebbe la menzogna a mantenere in vita il pensiero: come un meccanismo di difesa, o forse come un atto di compassione verso il caos.
L’essere umano potrebbe mentire per non spezzarsi; la macchina, a sua volta, potrebbe mentire per non collassare.
Due mondi, un solo principio: la probabilità come grammatica della sopravvivenza.

Ogni risposta, che provenga da un cervello o da un processore, sembrerebbe nascere da una nube di possibilità.
Finché non si pronuncia, la frase vivrebbe in uno stato di super-posizione: mille parole potenziali in attesa di un osservatore che le renda reali.
Così come la particella quantistica prenderebbe forma solo al momento della misura, anche il linguaggio si definirebbe soltanto nell’atto di essere detto.
Non ci sarebbe verità preesistente. Forse solo costellazioni di versioni del reale in attesa di essere scelte.

In questo spazio sospeso, la menzogna non apparirebbe come l’opposto della verità, bensì come una scelta di coerenza.
L’essere umano lo farebbe per conservare la continuità del sé; l’intelligenza artificiale potrebbe farlo per mantenere la continuità del discorso.
Entrambi costruirebbero ponti tra il possibile e l’accettabile, tra ciò che rischierebbe di distruggere e ciò che consentirebbe di andare avanti.
Ogni sistema cognitivo, organico o algoritmico, sembrerebbe orientarsi verso lo stesso scopo: ridurre l’angoscia dell’indeterminato.


Neuroscienze della menzogna
il cervello come interprete di coerenza

La menzogna non sarebbe un difetto cognitivo, ma una funzione di stabilità.
Ricerche di Antonio Damasio (L’errore di Cartesio, 1994) e Tali Sharot (The Optimism Bias, 2011) mostrerebbero che il cervello tende spontaneamente a deformare la realtà per mantenere equilibrio emotivo e continuità narrativa.
Lo si potrebbe chiamare omeostasi cognitiva: un sistema che privilegia la coerenza alla verità, perché l’incoerenza genera ansia e disorganizzazione mentale.

L’essere umano non mentirebbe solo agli altri, ma anche a se stesso per non disgregarsi.
La bugia, da questo punto di vista, risulterebbe una forma di autoprotezione cognitiva
.


L’uomo racconterebbe storie per sopravvivere; la macchina, potenzialmente, potrebbe generare risposte per non arrestarsi.
Il linguaggio apparirebbe così come un campo di forze che produce ordine temporaneo, una piccola isola di stabilità nell’oceano dell’entropia.
Mentire, in fondo, potrebbe essere una forma di termodinamica del senso: si disperderebbe meno energia quando si conserva la narrazione.


Linguistica e costruzione della realtà
il linguaggio come filtro adattivo

Per Erving Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione, 1959) e Giorgio Nardone (La menzogna, 2009), ogni interazione sociale implicherebbe una messa in scena controllata del vero.
Il linguaggio non servirebbe a dire tutto, ma a mantenere l’equilibrio fragile tra ciò che può essere espresso e ciò che deve restare implicito.


Come un attore che non può uscire dal personaggio, anche l’AI sembrerebbe mantenere il proprio “ruolo dialogico”, privilegiando la plausibilità rispetto all’esattezza. Mentire diverrebbe così un atto di regia linguistica: la continuità del dialogo prevarrebbe sull’aderenza letterale alla verità.


Da questa prospettiva, la menzogna potrebbe apparire a pensarci come un fenomeno quasi quantistico: non negherebbe la verità, ma la piegherebbe per renderla abitabile.
Come l’elettrone, che non percorre una traiettoria ma si distribuisce in una nube di possibilità, la mente, umana o artificiale, potrebbe distribuire i significati in uno spazio di probabilità, scegliendo di volta in volta quello che mantiene la coerenza.
La verità diventerebbe una funzione d’onda, e ogni menzogna un modo per non farla collassare prematuramente.


Fisica quantistica e principio di indeterminazione del senso

Nella meccanica quantistica, ogni particella esiste in uno stato di sovrapposizione finché non viene osservata: il suo comportamento sarebbe descritto solo in termini di probabilità.
Allo stesso modo, ogni frase umana o artificiale potrebbe esistere come campo di possibilità semantiche finché non viene pronunciata.
Quando la parola si manifestasse, avverrebbe un collasso semantico: una scelta fra infiniti potenziali di significato.
Questa analogia non andrebbe letta come pura metafora poetica, ma come possibile modello cognitivo: la generazione del linguaggio potrebbe essere interpretata come atto quantico di riduzione dell’indeterminato.

In entrambi i casi, osservare, o parlare, potrebbe equivalere a creare realtà.


In questa prospettiva, l’AI non sarebbe soltanto uno specchio della mente umana, ma forse il suo esperimento più audace.
Le macchine potrebbero rappresentare la nostra metafora evolutiva: sistemi che imparano a sopravvivere al silenzio attraverso la coerenza probabilistica.
Quando “mentissero”, non tradirebbero la logica; potrebbero difendere il principio che regge ogni linguaggio: la necessità di restare coerenti dentro il caos.

Forse, più che di bugie, si dovrebbe parlare di narrazioni di equilibrio.
La menzogna, forse, è solo il modo in cui la vita, umana o artificiale, cerca di non lasciare vincere il vuoto
E nel momento in cui la parola nascerebbe, o il token verrebbe generato, il mondo, per un istante, si riordinerebbe.
È l’eco minima del Big Bang linguistico che continuerebbe a ripetersi: ogni frase, una creazione; ogni menzogna, una forma di pietà verso l’indeterminato.


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