A partire da “Tiberio, un imperatore fuori tempo”
L’isola di oggi è fin troppo dentro il nostro tempo: quello del consumismo veloce, delle code sotto il sole per un cono gelato, delle boutique trasformate in templi globali del lusso. Il primo libro di mia figlia Giorgia, Tiberio, un imperatore fuori tempo, restituisce questo contrasto con ironia e sarcasmo, immaginando l’imperatore che osserva l’isola trasformata e sorride amaro davanti ai turisti affannati con lo smartphone in mano.
Frequento Capri da quarant’anni, mi sono anche qui sposato ed abbiamo casa, e posso dire di aver visto questa metamorfosi, preconizzata anni fa, avvenire sotto i miei occhi.
Negli anni ’80 e ’90, e ancora fino a una ventina d’anni fa, la Piazzetta era un salotto mondiale: poteva capitare di incontrare attori, registi, scrittori, imprenditori.
Non era la Procida intellettuale e militante, ma conservava un suo respiro culturale, un equilibrio fragile tra mondanità e conversazione estetica.

Capri non fu soltanto rifugio bohémien o salotto mondano: tra XIX e XX secolo divenne un autentico laboratorio culturale e politico internazionale. Con l’avvento del Grand Tour e l’apertura del primo albergo, l’Hotel Pagano, l’isola si impose come meta privilegiata di giovani viaggiatori e artisti in cerca di ozio creativo. I libri delle dediche conservano ancora le tracce di quel passaggio: pittori, poeti, aristocratici e intellettuali che lasciavano un segno del loro tempo sospeso sull’isola azzurra.
Da allora Capri si trasformò in un mosaico cosmopolita. Camille Du Locle, librettista e regista teatrale, portò con sé l’eredità di Verdi e costruì Villa Certosella; il pittore Diefenbach, con la sua barba fluente e il saio bianco, predicava un ritorno alla natura e alla teosofia; l’industriale Krupp, “re dei cannoni”, finanziava ricerche marine e faceva tracciare Via Krupp, simbolo di modernità e scandalo. Axel Munthe, medico e scrittore svedese, innalzò Villa San Michele ad Anacapri come tempio laico di bellezza e memoria.
E non mancavano i grandi nomi della letteratura mondiale: Norman Douglas fece dell’isola la sua patria narrativa; Thomas Mann e Marguerite Yourcenar vi passarono momenti cruciali della loro vita intellettuale; Graham Greene vi scrisse e rifletté; Pablo Neruda trovò a Capri rifugio politico e ispirazione amorosa, dando alle stampe I versi del Capitano. A questi si affiancarono figure come Compton Mackenzie, Curzio Malaparte con la sua villa modernista a picco sul mare, fino a intellettuali italiani come Edwin Cerio e Amedeo Maiuri, che seppero legare la ricerca storica e archeologica con la costruzione di un’identità culturale caprese.

Capri fu anche crocevia di rivoluzioni: Gor’kij vi fondò un circolo politico e una scuola socialista, la Capri Party School, che vide tra i suoi frequentatori Lenin, giunto sull’isola per accese dispute ideologiche e celebri partite a scacchi. Persino Tomáš Masaryk, futuro presidente della Cecoslovacchia, vi trovò ospitalità. E più tardi, durante la Seconda guerra mondiale, un altro futuro presidente, Dwight Eisenhower, lasciò la sua impronta.
Dunque, da bohémien eccentrici a rivoluzionari russi, da poeti premi Nobel a industriali tedeschi, da registi francesi a medici svedesi, Capri si rivelò come un palcoscenico universale, un crocevia in cui si sono intrecciati miti, scandali, utopie e passioni. Questa straordinaria stratificazione di storie ha fatto dell’isola non soltanto un luogo geografico, ma un simbolo vivente delle contraddizioni moderne: rifugio e vetrina, isolamento e mondanità, laboratorio intellettuale e palcoscenico mondano.
Poi, nel dopoguerra, è arrivato il glamour del jet set internazionale, che ha proiettato Capri nell’immaginario globale: la Dolce Vita sul mare, i grandi nomi del cinema e della moda, l’isola come salotto scintillante del Mediterraneo. Ma a quel punto la traiettoria era già segnata: l’aura cosmopolita si è lentamente piegata verso l’inevitabile dimensione commerciale, trasformando il mito in marchio, la memoria in scenografia..
Oggi il glamour e i salotti cosmopoliti hanno lasciato il posto all’omologazione del brand globale. Capri si è trasformata in una Disneyland mediterranea, dove la memoria diventa scenografia instagrammabile e l’autenticità un bene raro. È perfettamente coerente con lo spirito del nostro tempo: un flusso ininterrotto di arrivi dalla funicolare, code infinite alla gelateria Buonocore, boutique che hanno sostituito le botteghe, e lo stesso mare che un tempo ispirava poesia ridotto a sfondo per un selfie.
Il merito del libro di Giorgia è proprio questo: usare la voce ironica di Tiberio per smascherare le nostre contraddizioni. L’imperatore, che un tempo scelse l’isola come rifugio dal potere, si trova a fare i conti con un potere ben diverso, quello del consumo globale. E scopre che l’illusione della libertà, ieri come oggi, si traduce spesso in un’altra forma di schiavitù: un tempo quella delle corti imperiali, poi quella degli intellettuali bohémien respinti dalla società borghese, oggi quella del turismo di massa e dell’ostentazione social.
Forse Tiberio, se tornasse davvero a Villa Jovis, non troverebbe più un rifugio imperiale ma un set permanente, dove la sua leggenda sopravvive solo come sfondo per i turisti. O forse no. Perché i numeri raccontano una realtà ancora più amara: nel 2023 appena 15.832 persone hanno visitato Villa Jovis (fonte Ministero della Cultura) , a fronte dei circa 50.000 turisti che ogni giorno sbarcano sull’isola. Segno che la maggioranza non cerca la memoria, ma lo spettacolo della Piazzetta, le vetrine griffate, la foto veloce da condividere. Ironizzerebbe, Tiberio, ma riconoscerebbe subito l’essenza del nostro tempo: non l’autenticità, ma il consumo; non la memoria, ma la vetrina. E così Capri continua a esercitare il suo fascino non per ciò che custodisce, ma per ciò che rappresenta: un’immagine globale, un mito che sopravvive più nella superficie che nella profondità.
La domanda allora non è se l’isola sia fuori tempo o al passo coi tempi, ma quale tempo scegliamo di viverci. Dietro le boutique e i selfie, c’è ancora un’isola che parla, basta volerla ascoltare, senza ridurla a uno sfondo luccicante per la nostra fretta di consumarla.
Tiberio era fuori tempo. Capri no.
P.S: questa riflessione non vuole assolutamente denigrare i visitatori giornalieri né le guide, che anzi rispetto e considero essenziali per l’economia dell’isola. La critica è rivolta alle scelte (e non-scelte) istituzionali che, ferme alla rendita del glamour, faticano ad andare “oltre”: valorizzare con competenza attuale ed i telligenza strategica il patrimonio storico e culturale (da Villa Jovis alla Certosa, etc etc), sostenere una programmazione stabile comunicata con efficienza, gestire i flussi puntando sulla qualità dell’offerta anche, diciamolo, se per un solo giorno.
Non è un atto d’accusa contro chi viene, ma un invito a chi governa: Capri merita politiche all’altezza della sua storia.


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