L’Arca smarrita, il sospetto ritrovato

Miti e ferite degli ebrei etiopi in Israele

C’è una leggenda che scivola nei secoli come un’ombra luminosa. Racconta che la Regina di Saba, attratta dalla sapienza di Salomone, lasciò l’Etiopia per incontrarlo a Gerusalemme. Dal loro incontro nacque un figlio, Menelik, che secondo il Kebra Nagast riportò in patria l’Arca dell’Alleanza. Da allora, dice la tradizione, l’Arca non avrebbe più abitato a Gerusalemme, ma ad Axum, custodita da un monaco che la veglia per tutta la vita senza mai poterla mostrare. Invisibile, eppure fondamento di un’identità.

Per gli ebrei etiopi, i Beta Israel, quella leggenda è stata molto più che mito: la prova simbolica di una discendenza da Israele.
Un filo antico che ha giustificato secoli di isolamento e che, nel Novecento, è diventato titolo per il ritorno.

Dal Mito alla Legge del Ritorno

Isolati sugli altopiani, i Beta Israel hanno custodito un giudaismo arcaico, fatto di sabati rigorosi, regole di purezza, sacrifici che ricordavano il Tempio scomparso.
Nel 1973, il rabbino capo sefardita Ovadia Yosef li riconobbe come ebrei a tutti gli effetti, legandoli alla tribù di Dan. Due anni dopo, il governo israeliano aprì loro le porte nel principio della Legge del Ritorno.

Così nacquero le grandi operazioni di immigrazione: con le fughe attraverso il Sudan negli anni Ottanta, e con i voli che in meno di due giorni portarono in Israele migliaia di etiopi di fede ebraica. Era il ritorno a casa, almeno sulla carta. Ma non sempre lo fu nella realtà.


Dal mito alla Legge del Ritorno

Gli ebrei etiopi, noti come Beta Israel, hanno vissuto per secoli isolati sugli altopiani del nord Etiopia, conservando un giudaismo arcaico: osservanza rigorosa del sabato, regole di purezza, sacrifici che riecheggiavano il culto del Tempio di Gerusalemme.
La loro origine è intrecciata al mito del figlio di Salomone e della regina di Saba, Menelik I, che avrebbe portato l’Arca dell’Alleanza in Etiopia. Questo legame mitico-religioso rafforzò l’idea che i Beta Israel fossero discendenti della tribù di Dan, una delle “tribù perdute” d’Israele.

Nel 1973, il rabbino capo sefardita Ovadia Yosef li riconobbe come ebrei a pieno titolo.
Nel 1975, lo Stato di Israele applicò loro la Legge del Ritorno, che dal 1950 garantisce a ogni ebreo il diritto di stabilirsi in Israele.
Ma non tutti furono d’accordo. Una parte del rabbinato ortodosso israeliano mise in dubbio la loro ebraicità, sostenendo che secoli di isolamento li avessero allontanati dalla halakhah (la legge religiosa). In molti casi, per sposarsi o integrarsi pienamente, ai Beta Israel fu imposto un “giyur lechumra” (conversione precauzionale) con nuove immersioni rituali e simboliche “riconferme” della fede.
Nonostante queste resistenze, iniziarono le grandi operazioni di immigrazione: nel 1984 iniziò l’Operazione Moses: migliaia di ebrei attraversarono clandestinamente il Sudan per raggiungere Israele; che continuò nel 1991 con l‘operazione Solomon con un ponte aereo che portò in Israele, in 48 ore, oltre 14.000 ebrei etiopi..
Era il ritorno nella “terra promessa”. Ma l’accoglienza non fu priva di contraddizioni: riconosciuti come ebrei da alcuni, trattati come sospetti da altri. Un paradosso che avrebbe pesato a lungo sulla loro integrazione.


L’inganno del vaccino

Ho appena letto un post di una amica su facebook che denunciava un episodio che mi ha lasciato interdetto. Ne ho voluto verificare l’attendibilità: sembra reale.
Nel 2012, un programma televisivo diede voce a donne etiopi che raccontarono una storia inquietante: in campi di transito in Africa e in cliniche, avevano ricevuto iniezioni che credevano vaccini per come, asserivano, gli fu detto. Erano invece dosi di Depo-Provera, un contraccettivo a lunga durata. Non poche di loro, dissero che la necessità della somministrazione fu presentata come condizione per partire per la terra promessa.

Lo scandalo prese forma e il Ministero della Salute reagì, nel 2013, imponendo che il farmaco non fosse più somministrato o rinnovato senza un consenso informato, chiaro, tradotto.
Una direttiva secca, che di fatto era un’ammissione: qualcosa non era stato fatto in modo corretto.

Eppure, tre anni dopo, il Controllore di Stato concluse che non c’erano prove di una politica ufficiale di sterilizzazione. Tutto rientrò, almeno sulla carta.
Ma il sospetto rimase: perché tutte quelle donne ricordavano le stesse scene?
Perché la natalità delle donne etiope era calata così bruscamente?
Il confine tra correzione e confessioni, ancora una volta, rimase sfumato.


Il sangue respinto

La comunità giudaica etiope aveva già conosciuto un’altra ferita in Israele.
Per anni, le loro donazioni di sangue erano state accettate e poi distrutte in segreto, con la giustificazione del rischio HIV. La notizia scoppiò nel 1996, e a Gerusalemme migliaia di etiopi scesero in piazza. Le immagini della protesta, con la polizia che disperdeva i manifestanti, restano uno dei momenti più duri della loro integrazione.

Anche lì, lo schema si ripeté: ammissione senza piena confessione. “Lo abbiamo fatto per motivi sanitari”, disse lo Stato. Ma nella memoria della comunità rimase altro: il segno di un rifiuto. Ebrei abbastanza per essere accolti, ma non abbastanza puri per donare il proprio sangue.


Confermare senza confessare

Depo-Provera e sangue rifiutato non sono episodi identici, ma parlano la stessa lingua. Una lingua fatta di sospetti, silenzi e correzioni tardive. Israele non ha mai dichiarato una politica di sterilizzazione né una volontà esplicita di discriminazione. Ma i fatti, messi in fila, raccontano di una comunità accolta e al tempo stesso guardata con diffidenza, sospesa in una sorta di ebraicità “condizionata”.

E qui sta la lezione più amara:

  • il non dichiarato non è automaticamente un “non avvenuto”;
  • correggere senza ammettere significa, in fondo, confermare senza confessare.

Come l’Arca ad Axum, che tutti sanno custodita ma nessuno può vedere, anche la verità su queste vicende resta nascosta. Invisibile eppure pesante, continua a segnare le vite di chi porta addosso le cicatrici di quell’invisibilità.


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