Dentro le anfore degli dèi

Archeometria, psichedelia e riti perduti

Che cos’è che resta di un rito millenario? Non la voce del sacerdote, non i gesti della comunità. Restano le tracce invisibili assorbite nella porosità di un vaso, nelle incrostazioni di un’anfora. Oggi, grazie all’archeometria, quelle tracce parlano: e raccontano di sostanze che non erano droghe d’abuso, ma chiavi psicotrope per aprire varchi interiori, per preparare a nascere o a morire, per incontrare il divino.

Enrico Greco, chimico dei beni culturali e archeometra, ha studiato un piccolo vaso tolemaico conservato in un museo della Florida. All’apparenza un oggetto qualunque. Ma sotto la lente delle analisi spettroscopiche e genetiche (metabarcoding del DNA vegetale), per identificare le tracce organiche nei reperti. quel vaso ha restituito il respiro di un rito perduto.

Non c’era semplice vino al suo interno. C’era una miscela potente: ruta siriana, con i suoi alcaloidi usati ancora oggi nell’ayahuasca; fiori di loto blu e ninfea azzurra, capaci di indurre stati onirici; piante analgesiche del genere Cleome; fermentati di uva e melograno; liquirizia e miele per rendere più bevibile un decotto altrimenti amaro.
E poi elementi ancora più sorprendenti: latte umano e altri fluidi corporei. Non aggiunte casuali, ma segni, simboli. La richiesta di protezione al dio Bes, il guardiano delle partorienti e della fertilità, passava anche attraverso la materia viva.


Quando il vino era per avvicinarsi a un dio

Il vino antico non era mai bevuto puro: sarebbe stato considerato barbaro. Veniva diluito con acqua (fino a tre o quattro parti), arricchito di resina e spezie. Nei simposi accompagnava la poesia, la filosofia, la parola collettiva.
Non era l’alcolismo odierno: era un catalizzatore simbolico. Una sostanza che disciplinava la mente, la scaldava, la rendeva fertile per il pensiero. Anche qui, la distanza dall’abuso moderno è evidente.


Greco insiste su un punto: qui non si parla di droghe per sballarsi. Si parla di enteogeni, sostanze che generano “il divino dentro di sé”.
In contesti iniziatici e protetti, queste pozioni conducevano chi le assumeva in stati di coscienza alterata, regolati e ritualizzati. Non un consumo privato, ma un atto collettivo che univa corpo, comunità e trascendenza.

Lo stesso accadeva nei Misteri di Eleusi, con il celebre kykeon; in India con il Soma; tra gli sciamani dell’Amazzonia con il tabacco rustico. Ciò che per secoli abbiamo liquidato come superstizione o leggenda, oggi trova riscontro nelle prove chimiche: gli antichi conoscevano e usavano sostanze psicotrope con una raffinatezza che abbiamo dimenticato


Il tabacco rustico

Nelle culture amazzoniche non si usava il tabacco industriale che conosciamo oggi (Nicotiana tabacum), ma il tabacco rustico (Nicotiana rustica). Potentissimo, fino a dieci volte più ricco di nicotina, veniva bevuto in infusi, insufflato, fumato in riti sciamanici. Non era vizio, ma pianta sacra: strumento per purificare, aprire la visione, collegarsi agli spiriti.
Una distanza enorme dall’uso moderno, dove il tabacco è dipendenza, mercato, additivo. Qui, invece, era ponte rituale.


«Se uno è stupido, rimane stupido anche sotto LSD», ricordava Giorgio Samorini. Una battuta che sembra tagliente, quasi cinica, e invece custodisce un nucleo di verità. Le sostanze psichedeliche non hanno il potere di trasformarti in qualcun altro, non ti regalano intelligenza o sapienza come un dono improvviso. Non creano dal nulla. Amplificano ciò che già sei.

Se nel tuo vissuto c’è un trauma nascosto, sarà quello ad affiorare, forse con la forza di una visione. Se dentro di te abita una cultura simbolica ricca, sarà quella a dispiegarsi in immagini, intuizioni, racconti interiori. Se sei prigioniero di rigidità cognitive, la sostanza potrà allentarle, ma non potrà sostituirle con contenuti che non hai mai coltivato.

In questo senso, la sostanza non è mai una scorciatoia: è specchio e catalizzatore.
Ti rimanda ciò che sei, lo ingrandisce, lo rende ineludibile.


Lo specchio della mente

Le neuroscienze contemporanee parlano di set & setting. Il contenuto dell’esperienza non è scritto nella molecola, ma nel dialogo tra la molecola e ciò che abita la tua mente. LSD, psilocibina, ayahuasca non portano dentro di te qualcosa di esterno: spalancano porte interne che, senza quella chiave, resterebbero chiuse.

  • Set: lo stato mentale, le aspettative, la cultura della persona.
  • Setting: il contesto rituale o terapeutico in cui la sostanza viene assunta.

Per questo, nelle culture antiche, non c’era mai sostanza senza rito. Non bastava bere o fumare: occorreva un contesto protetto, guidato, regolato da sacerdoti o sciamani.
Il rito era il filtro, la cornice simbolica che dava senso e direzione a ciò che emergeva.
Senza quella cornice, l’esperienza rischia di diventare caotica, traumatica, perfino distruttiva. È ciò che accade quando la sostanza viene separata dal contesto e degradata a droga d’abuso: non più veicolo di senso, ma detonatore cieco.


Oggi la scienza lo conferma: non basta assumere la molecola. Per questo si parla di psicoterapia assistita. Le immagini, i traumi, le intuizioni che emergono hanno bisogno di essere integrate, interpretate, trasformate in consapevolezza.

La sostanza amplifica; ma senza rito o guida resta solo rumore. Un farmaco senza simbolo è chimica muta. E un simbolo senza sostanza? Un gioco di parole, niente più.

L’archeometria ci mostra che nelle anfore e nei vasi non restano solo molecole: restano le tracce di un sapere dimenticato. Un sapere che non aveva nulla a che vedere con l’abuso, ma con il rito. La differenza non è nella sostanza, ma nel contesto. Non nel che cosa si beveva o fumava, ma nel come e nel perché.

E forse questa lezione risuona anche oggi. Basta guardare a come la cultura contemporanea stia tornando a interrogarsi sugli psichedelici come strumenti terapeutici.
Nella serie Nine Perfect Strangers, che ho recensito qui sul blog, non si parla di archeologia ma il meccanismo è lo stesso: un gruppo di persone rotte dentro, ognuna a suo modo, viene accompagnato in un percorso che mescola spa, yoga e microdosi. Non è scienza, è fiction, eppure ci sbatte in faccia la domanda che conta: quando la sostanza guarisce e quando diventa solo abuso?

Così come nei riti antichi il senso non era nella sostanza ma nel simbolo, anche oggi la sfida non è chimica, ma culturale. Si tratta di decidere se le molecole debbano restare strumenti ciechi, o se possano tornare a essere linguaggi interiori.

Il punto è tutto lì: distinguere ciò che apre da ciò che distrugge, dunque: è questa la linea che attraversa i secoli. E forse proprio nelle serie, nelle narrazioni, nelle nuove ricerche scientifiche, si intravede il ritorno di un sapere antico: quello che per millenni ha fatto della sostanza non una fuga, ma un linguaggio sacro dell’umanità.

Ora che abbiamo attraversato i millenni tra anfore e rituali, tra simboli e neuroscienze, resta la voce diretta di chi queste tracce le ha fatte parlare. Puoi ascoltare Enrico Greco nel podcast Bazar Atomico, qui: [link al podcast].

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