Comandanti e soldati: chi risponde della barbarie?

il Dovere di Disobbedire

Obbedire non è sempre un atto di disciplina. Talvolta è un alibi.
Quando le norme sono violate in nome dell’ordine, disobbedire diventa un dovere etico e giuridico.
Nel diritto internazionale umanitario, l’obbedienza cieca non esiste: esiste la responsabilità. Individuale. Irrinunciabile.


Posto questa riflessione perché, francamente, non ne posso più di leggere e ascoltare [“puttanate”].
Perché sono un operatore DIU, di Diritto Internazionale Umanitario, non per passione accademica o per collezionare trattati.
Ma perché, da militare di un’Arma che ha anche compiti di Polizia Militare, ho imparato, perché era mio dovere farlo, che anche nella guerra più cruenta la violenza deve avere un argine, per non travolgere la dignità umana.
Non un alibi. Non una foglia di fico.
Un confine. Netto. Tra ciò che è lecito e ciò che è barbarie.

Ogni volta che si parla di Diritto Umanitario, spuntano i soliti ritornelli da bar o da social, prodotto dell’ignoranza e della faziosità:

“In guerra vale tutto.”
“Se ci attaccano, dobbiamo rispondere con la stessa moneta.”
“Il diritto internazionale? Roba da anime belle, mica da combattenti.”

Ecco, è a questi belanti e stonati cori che mi rivolgo. Non per fare polemica sterile, ma per riportare un po’ di chiarezza.
Perché, come hanno ricordato anche esperti e operatori recentemente messi a tacere, isolati, o peggio sanzionati proprio per averlo affermato con troppa chiarezza,
il Diritto Internazionale Umanitario non è un’opinione. È legge.
Ed è una legge che serve a proteggere.
Tutti. Indistintamente. Anche il nemico. Soprattutto il nemico, quando è disarmato.

Il DIU non si pronuncia sul perché si combatte. Si pronuncia sul come. E il come fa la differenza. Anche chi viene definito “terrorista” da uno Stato colpito, se parte di un conflitto armato strutturato, non perde la protezione umanitaria minima.

Il nodo
chi è il nemico, e chi decide?

Nel documento “Diritto Internazionale Umanitario. Un’ampia introduzione” redatto dalla Croce Rossa Italiana nel 2023, si spiega chiaramente: il diritto umanitario non si esprime sulla legittimità della causa né sullo status nazionale del combattente. Non importa se uno Stato lo chiama terrorista: se è coinvolto in un conflitto armato, deve comunque essere trattato secondo le regole.

E questo non per buonismo, e io non sono “buono”, ma perché la distinzione tra combattente e criminale non può essere lasciata alla vendetta sul campo, né alla propaganda faziosa o agli interessi personali.

Anche chi non ha uno status formale, anche chi viene catturato,  deve essere protetto contro la tortura, le punizioni collettive, i trattamenti degradanti. Per evitare che la guerra si trasformi in licenza di ferocia.
Anche se un prigioniero ha agito come un criminale, se ha la “fortuna” di essere catturato vivo, non sarà giustiziato sul campo, ma sarà sottoposto a un giusto processo. E se la pena stabilita da un tribunale sarà l’ergastolo, o la pena capitale, laddove prevista dalla giurisdizione competente, sarà eseguita secondo legge, non come atto di vendetta, ma come applicazione di una norma, nel rispetto delle garanzie procedurali.

in questo filmato la prima sequenza è sicuramente un crimine di guerra: combattenti fatti prigionieri vengono giustiziati; nella seconda sequenza l’evento potrebbe non essere classificato come un crimine di guerra.

Il Principio di Distinzione
È la prima barriera tra la guerra e la barbarie.

Chi combatte, deve distinguere sempre tra:

  • combattenti e non-combattenti
    (civili, feriti, personale sanitario, detenuti, …);
  • obiettivi militari legittimi e beni civili
    (scuole, ospedali, monumenti, acquedotti, case civili, … ).

Questa non è un’opzione. È una regola di legge.
Non scritta in un trattato firmato a tavolino, ma riconosciuta come diritto consuetudinario, cioè vale per tutti gli Stati, anche per quelli che non hanno mai ratificato nulla.
Vale sempre. In ogni guerra. Senza eccezioni.

Che cosa vieta?
Secondo lo studio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), il principio di distinzione:

  • proibisce gli attacchi diretti contro i civili e i beni civili
    (Regole 1–10);
  • impone di selezionare i bersagli e vieta l’uso della forza in modo indiscriminato (Regole 11–13);
  • obbliga a trattare i prigionieri in modo umano
    (Regola 87);
  • proibisce la vendetta contro i civili, anche se l’altra parte viola le regole
    (Regola 145).

Attaccare un ospedale “perché forse dentro c’era un terrorista” è vietato.
Usare bombe a grappolo su un villaggio “perché forse da lì sparavano” è vietato.
Colpire un convoglio umanitario “perché non si fidano” è vietato.

 Il criterio guida non è l’intenzione, ma la proporzionalità e la certezza dell’obiettivo.
Non puoi agire “nel dubbio”. Non puoi “sparare nel mucchio”.

Questa è la linea rossa.
Chi la oltrepassa, non combatte. Commette crimini.
Il diritto serve proprio a questo: a impedire che l’odio diventi licenza.



Il DIU in parole semplici

Il Diritto Internazionale Umanitario è ciò che separa un esercito da un branco.
È la regola che ti permette di guardare un prigioniero, anche il peggiore avversario, negli occhi.
E poi, guardare anche te stesso allo specchio.
Anzi, a pensarci bene, un branco di animali uccide per necessità, non per vendetta. È quando l’uomo perde il senso del limite che supera perfino la bestialità.

Protegge:

  • chi non combatte (civili, feriti, detenuti, personale medico, … );
  • i beni civili (scuole, ospedali, monumenti, reti idriche, … );
  • e limita armi e metodi di guerra.

Non è un lusso. È la condizione minima per parlare di civiltà, anche quando si combatte.


Cosa significa “limitare armi e metodi di guerra”?
Il Diritto Internazionale Umanitario impone limiti all’uso di armi e tattiche che causano sofferenze inutili, colpiscono indiscriminatamente o danneggiano l’ambiente in modo duraturo.
Ad esempio, sono vietate o fortemente limitate:

  • Armi chimiche e biologiche
     Convenzione sulle Armi Biologiche (1972 – BWC/BTWC)
     Convenzione sulle Armi Chimiche (1993 – CWC)
     > Vietano in modo assoluto lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e l’uso di queste armi.
  • Mine antiuomo
     Convenzione di Ottawa (1997 – Mine Ban Treaty)
     > Vietato l’uso, la produzione, il trasferimento e lo stoccaggio di mine antipersona.
      Consentite solo mine anti-veicolo e mine con dispositivi di autodistruzione e disattivazione.
  • Armi incendiarie
     Protocollo III della Convenzione su alcune armi convenzionali (1980 – CCW Protocol III)
     > Vietato l’uso contro civili e in zone densamente popolate.
      Definite come armi che usano fuoco o sostanze chimiche per causare ustioni o incendi.
  • Munizioni a grappolo (cluster munitions)
     Convenzione sulle Munizioni a Grappolo (2008 – Convention on Cluster Munitions)
     > Vietato l’uso, la produzione e il trasferimento di munizioni che rilasciano submunizioni esplosive.
    Rappresentano un rischio prolungato per la popolazione civile a causa dell’elevato tasso di ordigni inesplosi.
  • Attacchi indiscriminati o sproporzionati
     Protocollo Aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra (1977), artt. 51 e 57
     > Vietati attacchi che non distinguono tra obiettivi militari e civili, o che causano danni eccessivi rispetto al vantaggio militare previsto
    .

    Il principio è chiaro:
  • Non tutto è lecito, neppure sul campo di battaglia.
  • La superiorità non giustifica la crudeltà.
  • La tecnologia non può superare la coscienza.

La Polizia Militare è la trincea legale

Chi pensa che in guerra tutto sia sospeso, sbaglia. La giustizia non si congela. E la divisa non dà diritto all’impunità.

Chi ha servito nella Polizia Militare sa bene cosa significhi muoversi sul crinale tra comando e diritto. Non si tratta solo di una forza di sorveglianza interna. La Polizia Militare ha il compito,  e il dovere, di far rispettare le regole del diritto umanitario anche nei contesti più complessi.

Interviene:

  • quando un soldato oltrepassa il limite, colpisce civili o abusa di prigionieri;
  • quando bisogna vigilare sul rispetto delle Convenzioni di Ginevra nei campi di detenzione;
  • quando occorre documentare un crimine, proteggere le prove, preparare il terreno alla giustizia.

Art. 90 – Compiti di polizia militare (Codice dell’Ordinamento Militare)

  1. Gli organi di polizia militare vigilano sull’osservanza delle leggi, regolamenti e disposizioni militari, incluse le norme internazionali (CIMIC, DIU).
  2. Assicurano ordine e sicurezza nelle Forze Armate, in patria e all’estero.
  3. Contrastano tecnicamente le azioni che ostacolano il normale svolgimento operativo delle Forze Armate.
    In concreto, significa che la Polizia Militare:
  • Controlla il rispetto delle regole di ingaggio e del DIU;
  • Segnala e indaga eventuali violazioni interne;
  • Mette in atto misure disciplinari o di polizia giudiziaria in coordinamento con l’autorità competente.

Ma, va detto: tutto questo è possibile solo se c’è volontà politica e gerarchica di far rispettare il diritto. Se dall’alto arrivano ordini opachi, la Polizia Militare rischia di diventare un orpello, un simbolo decorativo, “presente ma non operante”.
Come ricorda anche una pubblicazione ufficiale della stessa Arma dei Carabinieri:
“I comandanti devono assicurarsi che anche i loro subordinati conoscano e comprendano gli obblighi che sono imposti ai combattenti dal DIU.”
(Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 2002)

Perché chi comanda non può limitarsi a emettere ordini: ha anche una responsabilità educativa, preventiva e giuridica.

E allora succede quello che già è successo,  e succede ancora, in troppi teatri di guerra: la legalità viene messa da parte per non disturbare l’apparato, la verità viene nascosta per proteggere la narrazione del Capo.  Le prove spariscono. La catena di comando si chiude a riccio.

Il DIU prevede anche questo: la responsabilità di comando si estende a chi non ha impedito le violazioni dei subordinati. E quando la giustizia interna viene soffocata, interviene quella internazionale. La Corte Penale Internazionale esiste per questo.

E a chi pensa che “obbedivo agli ordini” sia una giustificazione, basta ricordare l'articolo 33 dello Statuto di Roma: se un ordine è manifestamente illecito, non solo può essere disobbedito:  deve esserlo.


Articolo 33
“Ordini superiori e prescrizione di legge”

1. Il fatto che un crimine di competenza della Corte sia stato commesso da una persona in esecuzione di un ordine di un governo o di un superiore, militare o civile, non esonera tale persona dalla responsabilità penale, a meno che:

  • La persona era legalmente tenuta a obbedire agli ordini del Governo o del superiore in questione;
  • La persona non sapeva che l’ordine era illegale; 
    e
  • L’ordine non era manifestamente illegittimo.

2. Ai fini del presente articolo, gli ordini di commettere genocidio o crimini contro l’umanità sono manifestamente illegittimi


Perché colpire civili, bombardare un ospedale o giustiziare prigionieri non è mai legittimo, neppure se te lo chiede un generale, un ministro o un capo di Stato.
La responsabilità è personale. La coscienza consapevole, in certi casi, conta più del grado.

Quando la Polizia Militare viene neutralizzata, non è solo la legalità a essere violata. È il principio di reciprocità universale a essere stracciato. Perché un esercito non è giusto o ingiusto in sé. Un conflitto non è giusto o ingiusto per definizione. Il diritto umanitario non prende posizione su chi ha ragione o torto: impone una cornice di legalità valida per tutti. Ciò che oggi fai a me, domani può essere fatto a te. Ed è per questo che il diritto resta neutrale: per evitare che la guerra diventi una licenza di disumanità.

I principi che contano. Sempre!

Ogni cittadino, anche chi non porta una divisa, dovrebbe conoscere e pretendere il rispetto di questi principi:

  • Distinzione
    civili e obiettivi militari non sono intercambiabili. Colpire un ospedale è un crimine, non un effetto collaterale.
  • Proporzionalità
    la forza usata dev’essere commisurata. Nessuna sproporzione è mai giustificata.
  • Precauzione
    fare tutto il possibile per evitare danni ai civili. Sempre.
  • Umanità
    chi si arrende, o è ferito, ha diritto a un trattamento dignitoso.
  • Non reciprocità
    se il nemico viola le regole, tu non sei autorizzato a fare lo stesso.

Il punto, oggi

Perché vediamo ancora ospedali colpiti, scuole bombardate, civili usati come scudi?
Perché il diritto viene violato?

Perché, per usare un vecchio detto che non ha perso mordente, “il pesce puzza dalla testa”.
Quando la catena di comando, politica o militare, è compromessa o complice, le regole rischiano di diventare carta straccia.
Ma violarle non significa che non esistano. Significa solo che, prima o poi, qualcuno dovrà risponderne.

Non c’è immunità per chi scambia la guerra per una licenza di brutalità. Nemmeno se ha il grado più alto, o la copertura politica del governo.

Scrivo questo perché vedo troppi che normalizzano l’ingiustificabile, che confondono propaganda con diritto, che credono che le regole valgano solo finché fanno comodo.

Scrivo perché chi oggi dileggia il diritto umanitario, o lo liquida come intralcio alla “guerra totale”, sta già scegliendo da che parte della Storia stare.

combattente prigioniero trattato secondo la convezione di ginevra

E chi, indossando una divisa, obbedisce in silenzio a ordini che contraddicono la legge, forse dovrebbe ricordare che la disobbedienza, in certi casi,  non è insubordinazione. È dovere. E forse dovrebbe anche ricordarsi di un altro antico proverbio: “Non sputare in cielo, che in faccia ti potrebbe tornare”

Il diritto di dire “no” non è un privilegio: è un presidio contro la barbarie.
Il comandante è responsabile non solo degli ordini che impartisce, ma anche di quelli che tollera. Il soldato non è una macchina,  il diritto umanitario lo riconosce come persona, ricordando  che:
“Il dovere di disobbedire non è rivolta. È coscienza giuridica.”


CENERI NELLA SELLA
Sotto un cielo che non ricorda, cammino tra croci arrugginite e fango muto.
Il sole d’argilla non sorge più qui, dove il mondo ha lasciato la battaglia senza bandiere.
Eppure, ogni volta che parlo, le stesse ali nere si stringono attorno al mio nome.
I corvi , indifferenti, vigili, hanno visto tutto: il sangue gelato, i sorrisi spezzati,
il mio ritorno a metà, con il fumo nei polmoni di una guerra mai finita.

Il fuoco si è spento, ma il fumo resta come un giuramento inciso nella pelle.
Bevo per i coraggiosi e per i caduti, finché la memoria resiste al vento.
Il giudizio, forse, non è una fiamma che avanza,
ma il silenzio che si stende tra una notte e l’altra.
Io attendo, nomino i volti, tengo viva la brace dei loro nomi
perché non scompaiano sotto la terra.

Ora cavalco tra polvere e tramonto, portando con me ciò che non ho potuto dire.
La città brucia ancora sotto la pelle, ma il peccato è più profondo.
Non ci sarà croce né tomba né canto:
solo il passo del mio cavallo che attraversa il velo dove persino i fantasmi
hanno dimenticato il dolore.
Quando il silenzio mi prenderà, lo seguirò fino al luogo dove appartiene la bruciatura


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