Una lettura narrativa del libro di Laurence Gonzales
“Se non riesci a trovare qualcosa di buffo e persino qualcosa di meraviglioso e stimolante in una situazione estrema, sei già in un mondo di dolore.”
— Laurence Gonzales
Quando ero giovane, ero pilota di aeroplano. Una volta, durante un decollo, il motore si piantò di colpo. A un’altitudine di circa mille piedi, mi ritrovai improvvisamente nel vuoto, senza spinta. Non so ancora oggi con esattezza come abbia fatto, durò una manciata di secondi: virai di 180° planando, evitai gli hangar e quattro G222, mi riallineai e atterrai sul prato, non sulla pista: perché avevo immaginato in un istante che un altro aereo potesse trovarsi proprio lì, pronto a decollare: sarebbe stata una strage, evitata per un soffio.
Non mi sono mai sentito un superuomo per questo. Forse sono sopravvissuto perché la mia mente era addestrata allo stress?
Perché anni di sport a livello internazionale, di allenamenti duri, di gare e sconfitte, avevano plasmato non solo il mio fisico, ma il mio sistema di risposta profonda?
La pressione non si cancella. Ma si può imparare a starci dentro.
Se è così, allora al concetto di Sport & Salute dovremmo aggiungere anche la parola Sopravvivenza.
Perché non è solo il corpo che reagisce. È la mente che decide.
È anche per questo che Sopravvivenza profonda di Laurence Gonzales mi ha colpito così nel profondo. Perché non parla solo di chi sa sopravvivere: parla di ciò che ci permette di sopravvivere. Non è questione di eroismo. È questione di presenza mentale, di disciplina interiore, di riconoscimento del rischio, e paradossalmente anche di umorismo.
Ci sono momenti in cui sapere non basta. Hai l’addestramento, l’equipaggiamento giusto, conosci il protocollo. Eppure, qualcosa si inceppa. L’ambiente cambia, l’aria si fa più sottile, la visione si restringe. L’adrenalina sale. E all’improvviso, la tua mente – quella razionale, ordinata, addestrata – si spegne. Resta il corpo. E, se sei fortunato, resta un altro tipo di intelligenza: quella che non si insegna nei corsi, ma si coltiva nel modo in cui reagisci, ti adatti, senti.
In Sopravvivenza profonda. Chi vive, chi muore e perché, Laurence Gonzales racconta cosa succede in quei momenti. Non con un saggio accademico, ma con un viaggio narrativo tra casi reali e intuizioni neuropsicologiche. La sua tesi non è affatto che l’addestramento sia inutile. Anzi: la routine, l’allenamento, le procedure interiorizzate sono fondamentali per aumentare la probabilità di sopravvivere.
Ma non bastano. Perché ci sono casi in cui anche i più preparati – i più esperti, i più tecnicamente competenti – si lasciano prendere dal panico, dalla negazione, dalla disconnessione emotiva.
A distinguere chi vive da chi muore, spiega Gonzales, non è solo quello che hai imparato, ma come riesci ad applicarlo nel caos. Non sopravvive solo chi sa, ma chi è presente nel momento giusto. Chi sa rallentare il tempo dentro di sé. Chi, come un buon pilota, riesce a “stare in cabina” anche quando tutto il resto vorrebbe fuggire.
Il cuore del libro, e forse il suo punto più prezioso, sta nel modo in cui racconta la relazione tra corpo, emozione e mente. Quando introduce il ruolo dell’amigdala, quella centrale arcaica che gestisce la paura, lo fa con leggerezza e profondità, raccontando della sua cagnolina Lucy. L’animale insegue uno scoiattolo e corre dritta contro un albero. Il cervello aveva già deciso prima che la mente potesse opporsi. E così funziona anche in noi. In certe condizioni, non pensiamo: reagiamo.
Ma che tipo di reazione è stata allenata dentro di noi?
Gonzales distingue tra emozioni primarie (la paura, l’istinto di sopravvivenza) ed emozioni secondarie, cioè quelle che derivano dall’esperienza, dal linguaggio, dalla memoria implicita. In uno scenario critico, quello che conta è quale delle due prende il controllo.
L’addestramento serve proprio a collegare la risposta emotiva adeguata a una situazione complessa.
Ma se manca il lavoro interiore, se la mente non ha imparato a stare nella paura, ad accettarla, a leggerla, allora si va in cortocircuito.
È qui che anche l’umorismo gioca un ruolo sorprendentemente serio. Non è evasione, non è leggerezza. È un meccanismo di auto-ricalibrazione cognitiva.
I migliori piloti, quelli che riescono a tenere il sangue freddo durante atterraggi impossibili su una portaerei, sono spesso gli stessi che fanno battute ciniche durante il briefing. Non per sdrammatizzare. Ma per ritrovare padronanza emotiva.
L’umorismo, in questo contesto, diventa una tecnica di sopravvivenza, un rituale per proteggere la lucidità.
Come scrive citando Al Siebert, autore di The Survivor Personality, “giocare e ridere vanno di pari passo. Giocare mantiene la persona in contatto con ciò che accade.”
L’ironia non anestetizza, ma disinnesca il cortocircuito. Permette di rimanere presenti. Perché chi si prende troppo sul serio, spesso finisce per non vedere arrivare il pericolo.
In un passaggio, Gonzales evoca la metafora del cavallo e del fantino. Il cavallo è l’emozione. Il fantino è la ragione. Nessuno dei due può fare a meno dell’altro. Ma solo se corrono insieme, con fiducia, possono raggiungere il traguardo. È un’immagine che rimane: il sopravvissuto non è né il più forte né il più veloce, ma colui che sa mantenere il controllo quando il cavallo scalpita.
Sopravvivenza profonda (Deep Survival) è un libro che insegna senza impartire lezioni. Racconta storie vere, a volte dure, ma lo fa con una scrittura accessibile, viva, che intreccia neuroscienze e letteratura, aviazione e filosofia. È un libro che resta accanto, come una guida silenziosa.
E che ci invita a chiederci: che rapporto ho io con la mia paura?
La risposta non sarà mai una sola. Ma è una buona domanda da portarsi in tasca.
altri temi/recensioni in questo blog : >>
Lascia un commento