Non avrai altro Dio …

C’è stato un tempo in cui gli dèi parlavano molte lingue. In cui le divinità di un popolo potevano essere accolte, tradotte, interpretate da un altro. Il politeismo antico non cercava verità assolute, ma armonie locali. Un dio non negava l’altro: semmai si affiancava, si sovrapponeva, si confondeva. Era un mondo in cui il sacro era fluido, adattabile, persino ospitale.

Poi qualcosa è cambiato. E non si è mai tornati indietro.

Il concetto che le religioni monoteiste possano essere una causa di conflitto e violenza ha suscitato ampie discussioni tra studiosi di varie discipline. Jan Assmann, un egittologo e studioso di religioni, è uno degli autori più influenti che ha esplorato questa tematica. Nel suo libro Non avrai altro Dio: Il monoteismo e il linguaggio della violenza e in altre opere come The Price of Monotheism, Assmann esamina come la natura esclusivista del monoteismo possa secondo lagenerare tensioni e violenza.

“Con la rivelazione mosaica, nasce un tipo di religione che separa in modo netto la verità dalla menzogna, il bene dal male, l’unico Dio dai falsi dèi. Non è più possibile tradurre o mediare: si impone un taglio netto tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi crede nel vero Dio e chi persiste nell’errore.”

Con l’avvento del monoteismo, a partire dalla rivoluzione religiosa di Mosè,  il mondo sacro si spezza in due. Da un lato la vera religione; dall’altro, tutte le false.
Da quel momento, adorare altri dèi non è più solo diverso: è sbagliato.
È peccato. È pericoloso.

Quella che per millenni era stata una pluralità di visioni viene ricondotta a un’unica via.
La verità diventa esclusiva. E l’esclusione, come spesso accade, porta con sé un’ombra: l’intolleranza.

“Il problema del monoteismo non è il fatto che vi sia un solo Dio, ma che a questa fede sia connessa un’idea esclusivista di verità. L’altro non è più semplicemente diverso: è sbagliato, infedele, da redimere o da combattere.”

Assmann non dice che il monoteismo sia cattivo o che le religioni monoteiste siano inevitabilmente violente. Ma suggerisce che nel cuore stesso del monoteismo c’è un potenziale polarizzante che non possiamo ignorare.
Dove c’è un unico Dio vero, ci sono inevitabilmente infedeli. E quando la fede si intreccia con il potere, l’infedeltà può diventare colpa, eresia, minaccia.

Le pagine della storia sono piene di esempi. Guerre sante, crociate, inquisizioni, stermini compiuti nel nome di Dio. Non solo contro i “pagani”, ma anche contro chi, pur proclamandosi fedele,  interpretava diversamente la fede. Il monoteismo, secondo Assmann, non ha solo inventato Dio. Ha anche inventato l’eretico.

Eppure, non mancano le critiche. C’è chi ricorda che anche i politeismi hanno conosciuto sacrifici umani, guerre e distruzioni. Che non serve un solo Dio per uccidere. C’è chi sottolinea che molte delle violenze religiose non nascono dalla fede, ma dal potere che se ne serve. E che le stesse religioni monoteiste hanno anche ispirato visioni universali di pace, giustizia e fratellanza.

Ma la domanda di fondo resta.
Cosa accade quando una verità si proclama l’unica possibile? Quando la fede non è più solo via interiore, ma confine identitario? Quando credere diventa criterio per includere o escludere, salvare o condannare?


Religione e autoreferenzialità secondo Luhmann

Nel pensiero del sociologo tedesco Niklas Luhmann, ogni sistema sociale, come la religione, il diritto, la scienza, funziona secondo una logica autopoietica: ovvero, si auto-produce e si auto-riproduce attraverso i propri codici interni.
Questo significa che un sistema non si limita a rispecchiare la realtà esterna, ma la interpreta e la ricostruisce secondo un codice binario specifico (es. sacro/profano, vero/falso, lecito/illecito).
Nel caso delle religioni monoteiste, il codice è spesso legato all’opposizione tra verità ed errore, tra fede autentica e infedeltà. Luhmann definisce questo meccanismo come autoreferenzialità: il sistema non si apre al dialogo con l’esterno, ma filtra ogni comunicazione attraverso la propria logica interna, rigettando l’alterità come non rilevante o addirittura come minaccia. Questa struttura rende il sistema altamente stabile ma, al tempo stesso, potenzialmente intollerante, perché ogni differenza non è più leggibile come “diversa”, bensì come “sbagliata”, “eretica”, “da convertire” o “da escludere”.
Non è un problema di contenuti, ma di forma sistemica: non si tratta solo di ciò in cui si crede, ma del modo in cui si crede.


La tesi di Assmann non cerca risposte facili. Ma ci ricorda che le parole con cui parliamo del divino non sono neutre. Che ogni narrazione religiosa è anche una scelta culturale. E che il modo in cui una civiltà parla di Dio può dire molto sul modo in cui tratta l’altro.

“L’intolleranza non nasce solo da un cattivo uso della religione, ma è inscritta nel DNA del monoteismo come religione della verità unica. Non si tratta di colpe storiche contingenti, ma di una struttura simbolica profonda.”

Forse, oggi più che mai, in un mondo attraversato da nuovi fondamentalismi e vecchie guerre travestite da scontri di civiltà, questa riflessione è quanto mai urgente.
Perché imparare a convivere non significa soltanto tollerare le differenze, ma disinnescare l’idea che ci sia un solo modo giusto di credere, di pensare, di vivere.


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