La scimmia che si svestì ed imparò a raccontare

Viaggio tra istinti, cultura e l’evoluzione dell’umano

Desmond Morris, zoologo ed etologo, pubblicò nel 1967 un saggio provocatorio che avrebbe segnato una svolta nella visione dell’essere umano: La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo.
In quel testo, con un approccio spiazzante per l’epoca, Morris proponeva di spogliarci delle sovrastrutture culturali per osservarci come realmente siamo: primati tra gli altri primati. Non divinità decadute, né esseri unici nel creato, ma un particolare tipo di scimmione privo di peluria: tratto che, ancora oggi, resta una peculiarità fra le oltre cinquecento specie di primati identificate.
Una differenza, questa, tutt’altro che estetica: la nudità non sarebbe un accidente, ma un adattamento profondo alla termoregolazione, utile a un essere vivente impegnato nella corsa e nell’attività diurna in ambienti caldi.

Il cuore della riflessione di Morris è che, malgrado i nostri edifici culturali e le nostre tecnologie, restiamo vincolati a un’eredità antica: quella degli istinti, delle emozioni, dei comportamenti selezionati nell’arco di milioni di anni.
Ed è proprio nella fedeltà a questa origine che l’autore cerca una chiave per comprendere il presente. Per farlo, si smarca da due approcci dominanti nel suo tempo: l’antropologia che studiava popoli cosiddetti primitivi come specchi della nostra origine, e la psichiatria che si concentrava sulle deviazioni individuali. Morris sceglie invece di osservare l’essere umano medio, confrontandone le azioni con quelle dei primati non umani e con quanto emerge dai dati fossili e biologici.

Secondo la sua ricostruzione, l’uomo si distingue dagli altri scimmioni non solo per la nudità, ma per una scelta evolutiva anomala: abbandona la foresta per affrontare ambienti aperti, sviluppa strumenti, linguaggio, forme di cooperazione complessa. È un passaggio che l’autore lega alla trasformazione da frugivoro solitario a carnivoro sociale, attraverso una rete crescente di rituali, alleanze, conflitti codificati. Sebbene oggi la cosiddetta “Savanna hypothesis” sia stata superata in favore di scenari più complessi – con ambienti misti, adattamenti multipli e traiettorie divergenti- il valore del ragionamento di Morris resta nel mettere a fuoco la trasformazione profonda che ha accompagnato l’emergere dell’uomo come animale sociale dotato di linguaggio e coscienza simbolica.

Un ruolo fondamentale in questo processo lo gioca la neotenia, ovvero il mantenimento di caratteristiche infantili nell’adulto. Allungare la fase di sviluppo permette un’espansione del cervello, maggiore plasticità, capacità di apprendere per imitazione.
Le neuroscienze e la genetica molecolare, oggi, confermano che molti geni legati allo sviluppo cerebrale umano rimangono attivi più a lungo rispetto ad altre specie.
Questo ci rende capaci non solo di apprendere, ma di costruire strutture culturali sempre più complesse.


La neotenia: infanzia prolungata, intelligenza espansa

La neotenia è il fenomeno biologico per cui alcuni tratti giovanili vengono mantenuti anche nell’età adulta. Nell’uomo questo si manifesta, per esempio, nella forma del cranio, nella plasticità comportamentale e  soprattutto  nella durata eccezionale dello sviluppo cerebrale. A differenza degli altri primati, i neonati umani nascono estremamente immaturi, e restano dipendenti per anni: un costo evolutivo altissimo, compensato però da un vantaggio straordinario.  Questa “infanzia allungata” permette un apprendimento esteso, una flessibilità cognitiva e una capacità di adattamento sociale fuori dal comune.
Non impariamo solo attraverso l’istinto, ma soprattutto osservando, imitando, dialogando.

La neotenia, insomma, ci rende esseri narrativi: capaci non solo di sopravvivere, ma di inventare mondi, culture, lingue e simboli. È anche grazie a questo ritardo programmato nella maturazione che l’essere umano ha potuto costruire ciò che chiamiamo civiltà.


La parte forse più destabilizzante del pensiero di Morris è l’idea che l’essere umano viva costantemente in una condizione di autoinganno.
Pensiamo di essere altro rispetto a ciò che siamo realmente, e questa distanza fra biologia e rappresentazione genera frustrazione, nevrosi, perfino violenza.
È qui che la riflessione si apre al dialogo con altre ricerche, come quelle di Paul Ekman sulle emozioni primarie.
Studiando popolazioni in contesti culturali diversissimi, dalle tribù della Papua Nuova Guinea alle metropoli occidentali, Ekman ha mostrato che alcune espressioni facciali legate alle emozioni fondamentali sono riconoscibili universalmente. Gioia, paura, rabbia, tristezza, disgusto e sorpresa sembrano appartenere a una grammatica emozionale innata, condivisa da tutta la specie umana.

Oggi il dibattito scientifico è più cauto: se da un lato molti dati confermano la presenza di pattern emotivi ricorrenti, dall’altro si riconosce che il modo in cui le emozioni vengono espresse, inibite, ritualizzate varia notevolmente da cultura a cultura.
È proprio in questa tensione tra struttura condivisa e variazione culturale che prende forma l’umanità.
La cultura, in questo senso, non è una sovrastruttura che si oppone alla natura, ma il suo linguaggio. Scrive con parole diverse le stesse emozioni, trasforma istinti in norme, bisogno in rituale.

E se accettiamo questa visione, allora anche la comunicazione interculturale cambia significato: non è solo il rispetto delle differenze, ma la ricerca di un riconoscimento reciproco.
Sotto le lingue diverse, i codici simbolici, le religioni, si muove un campo condiviso: la necessità umana di appartenere, raccontare, cercare senso.
Da qui il sincretismo religioso non appare più come confusione o contaminazione, ma come manifestazione di una tendenza naturale a mescolare, reinterpretare, reinventare il sacro.
L’essere umano, dotato di empatia e immaginazione, ha sempre ritualizzato l’ignoto, trasformando emozioni profonde in forme sociali.
Le religioni diasporiche, come il Candomblé o la Santería, i culti sincretici latinoamericani, il buddhismo zen, sono tutte risposte culturali a domande comuni: protezione, guarigione, identità, appartenenza.

Tutto ciò che chiamiamo religione, mito, rito, simbolo, è in fondo l’elaborazione di una struttura emotiva condivisa.
Ecco perché parlare di “umanità innata” non significa negare le differenze, ma riconoscere che, alla base, condividiamo dispositivi comuni: emozioni, attaccamento, empatia, capacità di apprendere e cooperare.
Questa umanità è trasformabile, ma non arbitraria.
È universale, ma sempre narrata in modo diverso.
È dentro ognuno di noi, ma si compie solo nel dialogo con l’altro.
Proprio lì, nel luogo in cui le differenze si incontrano, nasce la possibilità di una comunicazione autentica.

E in questo orizzonte si inserisce una riflessione conclusiva, che ci riporta al cuore biologico della nostra umanità: il fatto che siamo, per natura, esseri incompiuti.
La nostra neotenia, l’infanzia prolungata che caratterizza Homo sapiens, non è un limite, ma una risorsa: ci rende adattabili, educabili, capaci di trasformare esperienza in conoscenza. È la prova vivente che il cervello umano non nasce per essere pronto, ma per essere allenato. Non è solo ciò che ereditiamo che ci definisce, ma ciò che coltiviamo: nelle relazioni, nell’apprendimento, nel pensiero.

Questa plasticità non è un’invenzione moderna, ma un dato scientificamente documentato. Studi di neuroscienze evolutive hanno confermato che i circuiti cerebrali umani restano aperti alla riconfigurazione molto più a lungo rispetto a quelli di altri primati (e anche in età adulta, se stimolati).
La neotenia è, dunque, il fondamento biologico di ciò che chiamiamo cultura e, insieme, la sua garanzia di rinnovamento.
Finché restiamo capaci di apprendere, restiamo pienamente umani.
È questa apertura, questa disponibilità ad allenare la mente e lo sguardo, che ci rende davvero parte di un’umanità condivisa, in cammino.


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