Mixed by Erry e la Napoli proto-digitale


La cassetta che anticipò Napster e le playlist, il vassoio che inventò il delivery, il garzone che prefigurò il rider, la città che immaginò il digitale senza saperlo.

C’era una volta, in una Napoli ancora tutta analogica, un ragazzo con il sogno di diventare DJ. Si chiamava Enrico Frattasio, ma per tutti era Erry. Quel nome, inciso su migliaia di cassette pirata, divenne negli anni ’80 e ’90 un marchio di culto: Mixed by Erry. Era più di una compilation: era una promessa di qualità, una selezione musicale fatta con il cuore e competenza artistica, e distribuita a mano, bancarella per bancarella, casa per casa, bar per bar, città per città. Un algoritmo umano, prima che l’algoritmo esistesse, capace di generare 180 milioni di playlist per un fatturato di 90 miliardi di lire.

Il film diretto da Sydney Sibilia ce lo racconta con il ritmo travolgente delle migliori storie italiane: quelle dove il confine tra genio e illegalità è sottile come un nastro magnetico. Ma non c’è solo nostalgia: c’è consapevolezza. Mixed by Erry ci parla oggi, nell’epoca dello streaming, della disintermediazione e dei contenuti liquidi, perché quella che allora chiamavamo pirateria oggi la chiamiamo “democratizzazione dell’accesso”. Erry, con le sue cassette, fece quello che Napster, Spotify e YouTube avrebbero fatto dopo: rendere la musica disponibile a tutti, subito, quasi fosse un bene comune.

Ma questa non è solo la storia di una cassetta. È la storia di una Città che ha anticipato senza volerlo l’intero paradigma della società digitale.
A Napoli, molto prima dei rider in bicicletta e delle app di delivery, c’era già il guaglione cu ’o vassoio che portava il caffè negli uffici e nei negozi.
Non era logistica: era rito sociale. La pausa condivisa, l’energia calda consegnata a mano, la relazione che vale più del prodotto.

E molto prima dei portafogli virtuali, del crowdfunding e dei wallet solidali, c’era il caffè sospeso. Paghi un caffè per chi verrà dopo di te. Una blockchain etica e popolare, basata sulla fiducia e sul senso di comunità.

Napoli, con le sue creazioni informali, con le sue reti umane e la sua creatività diffusa, ha inventato,senza saperlo, modelli che oggi il mondo digitalizza, brevetta, monetizza.
Ha fatto innovazione sociale prima che diventasse una disciplina accademica. Ha messo in scena la cultura della rete prima che arrivasse Internet.

Ma c’è un nodo irrisolto. A Napoli l’innovazione c’è sempre stata, manca però ciò che altrove la rende sistema: il capitale paziente, il rischio calcolato, la fiducia finanziaria. In una parola: i venture capitalist

Il modello Silicon Valley non ha solo prodotto tecnologie: ha costruito un ecosistema in cui l’errore è investimento, il talento è un asset, e un’idea è già una forma embrionale di impresa.

A Napoli, anche l’idea più brillante rischia di restare folklore se non trova riconoscimento. Se Mixed by Erry fosse nato in California, oggi sarebbe un colosso della musica liquida. A Forcella, invece, è diventato reato.

È questo il vero divide, che non è digitale: non la mancanza di competenze, ma la mancanza di fiducia strutturata. Non l’assenza di idee, ma l’assenza di chi sa investirci davvero.

Perché finché Napoli sarà raccontata solo come luogo di creatività spontanea, e mai come polo d’innovazione sistemica, resterà laboratorio senza impresa, capitale culturale senza capitale economico.

E allora forse serve una nuova visione. Un venture humanism, capace di guardare alle periferie culturali come serbatoi di futuro, non come casi da folklore. Perché è lì, nei margini, che spesso nasce ciò che domani chiameremo progresso.

E allora forse serve una nuova visione. Non solo un venture capitalism illuminato, ma anche una burocrazia meno ferraginosa, che sappia distinguere tra chi non ha denaro e chi non ha valore. Perché oggi, in molte aree del Sud e in molte storie come quella dei Frattasio, il vero ostacolo non è la mancanza di idee, ma la mancanza di strumenti che riconoscano il capitale intellettuale come risorsa reale.

Chi vuole innovare, spesso si trova davanti a un sistema pensato per chi ha già. Nessuna banca ti presta denaro se non hai garanzie patrimoniali. Nessun fondo ti aiuta se non anticipi l’aliquota privata del cofinanziamento. Nessuna misura pubblica è accessibile se non puoi versare in anticipo l’IVA per cui poi, forse, ti verrà restituito qualcosa.

Ma l’innovatore vero non ha capitale liquido: ha capitale umano, capitale sociale, capitale narrativo. E non può aspettare di “essere solvibile” per costruire valore. Deve essere messo in condizione di agire, creare, sbagliare, ritentare. Con fiducia.

Serve allora una nuova grammatica del credito: dove l’idea vale quanto l’ipoteca, dove la reputazione progettuale conta quanto il reddito pregresso, dove le istituzioni pubbliche e i fondi privati diventano partner, non controllori.

Finché questo non accade, continueremo a vedere innovatori costretti a inventare nell’ombra, a travestire la genialità da espediente, a chiamare “scam” ciò che altrove si chiamerebbe “startup”.

E invece Napoli, e con lei tanti altri Sud del mondo, ha già tutto per diventare un laboratorio globale di innovazione dal basso. Ma servono occhi nuovi per vederlo. E mani disposte ad accompagnarlo, non solo a giudicarlo.

Non è solo una visione romantica. È realtà.
Non tutti sanno che proprio a Napoli, tra i laboratori dell’ Università Federico II e l’Istituto del CNR di Pozzuoli, è stato pensato e realizzato il primo prototipo di computer quantistico italiano, oppure che una startup napoletana, Oxhy, conduce ricerche d’avanguardia sulle proprietà quantistiche dell’acqua, basandosi su un approccio ispirato all’elettrodinamica quantistica.
Una frontiera che sembra futuribile, ma che affonda le sue radici in una città che ha sempre saputo giocare con il tempo: portando il futuro nei vicoli, e l’immaginazione nella scienza.

Oggi, mentre cerchiamo di capire come umanizzare il digitale, come renderlo più vicino, più giusto, più empatico, dovremmo forse tornare lì, tra quei vicoli. Dove la musica si duplicava per passione, il caffè si portava per riconoscenza e la tecnologia si faceva gesto quotidiano.
Mixed by Erry non è solo un film. È una lente per leggere la storia di una città che ha pensato il futuro con mezzi di fortuna. Una Napoli proto-digitale che oggi ci invita, ancora una volta, a guardare oltre.

P.S. (per chi si è fermato alla superficie)
No, questo articolo non intende promuovere la pirateria. Parte da una storia reale – quella di Mixed by Erry – per costruire una metafora retorica, ovvero una figura del discorso che trasferisce un concetto da un ambito a un altro per rendere visibile, attraverso un esempio concreto, qualcosa di più complesso e sistemico. Il riferimento a Napster o alla Silicon Valley non è da intendersi in senso letterale, ma come paradosso simbolico: serve a far emergere due temi centrali.
Il primo è l’asimmetria degli ecosistemi, per cui in contesti come la California esiste una filiera capace di trasformare rapidamente l’inventiva in impresa, mentre in contesti come quello napoletano questa trasformazione si inceppa o viene soffocata.
Il secondo è il valore del genio di confine: quella capacità di innovazione che nasce ai margini, spesso con mezzi di fortuna, e che riesce ad anticipare, in forma embrionale,  dinamiche che altrove verranno sistematizzate e monetizzate. Si tratta di una scelta linguistica e argomentativa precisa: avrei potuto dire in modo più diretto e provocatorio che “abbiamo un sistema profondamente disfunzionale”:  e sarebbe stato chiaro a tutti. Ma ho scelto invece di usare la forza della metafora per trasformare un grido in un ragionamento. Perché penso che anche la critica più radicale, se espressa con rigore e visione, possa arrivare più lontano. Questa riflessione non è affatto un’agiografia di Erry né una nostalgica difesa dell’illegalità, ma un invito a guardare con altri occhi quei contesti spesso liquidati come folklore, e a riconoscere le condizioni che impediscono alle intuizioni periferiche di diventare impresa, cultura, sistema. Chi ha gli strumenti per andare oltre la superficie lo coglie.
Chi non li ha, è, paradossalmente,  proprio la prima vittima di quel sistema che tento di denunciare


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