Episodio VII – Lezioni dal passato su sistemi che collassano senza fare rumore
Quando il mondo cambia lentamente, sopravvive il più forte. Quando il mondo cambia in fretta, sopravvive chi riconosce prima la soglia.
Sui social ci siamo abituati a cercare il mostro, il mistero, il Big Foot. Ma questa volta la creatura “utile” non è una leggenda. È minuscola, reale, e non fa rumore: l’Ili Pika. E proprio perché non è un mito, può diventare una lezione.
Sui monti Tianshan, tra rocce e freddo secco d’alta quota, vive l’Ili Pika: minuscolo, schivo, perfettamente sintonizzato su un microclima. La sua vita è fatta di stagioni brevi, scorte di erbe raccolte al momento giusto, rifugi tra le fessure della pietra. Un equilibrio raffinato, millimetrico. E proprio per questo fragile.
La lezione non è “naturalistica” in senso stretto. È una lezione su ciò che accade quando un sistema continua a fare bene ciò che ha sempre fatto, ma il mondo intorno ha cambiato ritmo. Le crisi profonde, spesso, non arrivano come esplosioni: arrivano come compressione del tempo utile, assottigliamento dei margini, normalizzazione dell’anomalia.
L’Ili Pika ci ricorda che non sempre si crolla per un errore. A volte si crolla per ritardo.
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C’è un errore ricorrente nel modo in cui raccontiamo le estinzioni: le immaginiamo sempre come eventi improvvisi, drammatici, spettacolari.
Un prima e un dopo, una linea netta.
La storia dell’Ili Pika, invece, è diversa. Ed è proprio per questo che è una lezione potente.
L’Ili Pika vive sui monti Tianshan, parte dello stesso vasto sistema montuoso asiatico dell’Himalaya, tra i 2.800 e i 4.000 metri. È un piccolo mammifero adattato a un ambiente estremo: freddo secco, aria rarefatta, cicli stagionali netti. Non migra, non va in letargo. La sua strategia è semplice e raffinata insieme: durante l’estate breve raccoglie erbe, le immagazzina, vive nascosto tra le rocce, mantiene una temperatura corporea che tollera male il caldo. Funziona. Ha funzionato per migliaia di anni.
Chi è l’Ili Pika (e come vive)
L’Ili Pika è un piccolo mammifero di montagna, un pika del genere Ochotona, che vive tra rocce e detriti d’alta quota nei monti Tianshan. Non è un roditore e non è un “coniglio in miniatura”: è un lagomorfo specializzato, costruito per un micro-mondo fatto di fessure, pietre, aria fredda e silenzio.
Nell’aspetto ricorda vagamente un coniglio dalle orecchie corte, ma è grande per essere un pika: misura circa 20,3–20,4 cm e può arrivare fino a 250 g. Il suo mantello può essere sorprendentemente “vivace”, con ampie macchie rosso-ruggine sulla fronte, sulla sommità del capo e ai lati del collo.
Fisicamente è un animale “da margine”: corpo compatto, muso corto e soprattutto un pelo fitto che funziona come isolamento. È frugale: consuma poco, si muove poco, spreca pochissimo. Ed è qui che la sua biologia diventa una strategia.
È un erbivoro: si nutre di erbe, foglie e piante alpine. Durante la stagione favorevole raccoglie vegetazione e la trasporta in piccoli depositi, una sorta di “dispensa” naturale, che gli serve per attraversare i mesi in cui il cibo scarseggia.
Un dettaglio cruciale: non va in letargo, nonostante il freddo. Resiste rimanendo vicino ai rifugi rocciosi e contando su due cose: il suo manto e le scorte. La sua sopravvivenza è fatta di continuità, non di sospensione.
Non migra e non compie lunghi spostamenti: la sua strategia è restare vicino ai ripari. Le fessure tra le pietre non sono solo nascondigli contro i predatori: sono un microclima più fresco e stabile, un “condizionatore naturale” essenziale per un animale che tollera male il caldo.
Vive in alta montagna, dove l’aria è più rarefatta e i livelli di ossigeno sono più bassi: questa scelta di quota contribuisce anche a ridurre la pressione dei predatori, rendendo l’ambiente meno accessibile a molte specie.
Vive “di finestra”: ha pochi mesi utili per nutrirsi bene e accumulare riserve. Se quel calendario naturale si altera, se le stagioni cambiano ritmo, se le piante arrivano tardi o seccano prima, il margine di sopravvivenza si assottiglia rapidamente. Ed è così che una crisi può arrivare senza rumore: non come un colpo improvviso, ma come una progressiva riduzione del tempo disponibile per restare vivi.
Se vogliamo dare un nome a ciò che stiamo osservando, entra in gioco il pensiero di Edgar Morin e la sua riflessione sui sistemi complessi. Morin ci ricorda una cosa apparentemente semplice, ma radicale: la realtà non è fatta di elementi isolati che si sommano, bensì di un tessuto di relazioni. Complexus significa proprio questo: ciò che è intrecciato. Quando cambia il contesto, non cambia un singolo fattore. Cambia l’organizzazione dell’insieme.

È la stessa cornice epistemologica che ho cercato di mettere a fuoco in Quantum Nexus: il pensiero di Edgar Morin come spunto per la Sostenibilità, usando il pensiero di Morin come bussola per affrontare insieme sostenibilità e tecnologie emergenti: non per aggiungere complessità, ma per imparare a vedere i nessi, prima ancora dei singoli problemi. Perché senza uno sguardo sistemico, anche l’innovazione più avanzata rischia di produrre effetti collaterali che emergono solo dopo, quando il margine è già stato consumato.
L’Ili Pika, infatti, non è vittima di una causa unica. È intrappolato in una rete di vincoli che si stringe progressivamente. Fisiologia, microclima, comportamento, stagionalità, disponibilità delle piante, ritmo delle temperature: tutto è connesso. Separare questi elementi per analizzarli uno alla volta può essere utile, ma rischia di farci perdere il punto essenziale. Comprendere, direbbe Morin, significa tenere insieme ciò che tende a essere separato.
Qui emerge un primo parallelismo esplicito con i sistemi umani. Anche le organizzazioni, le istituzioni, le tecnologie raramente collassano perché “smettono di funzionare”.
Al contrario, spesso collassano perché continuano a funzionare bene in un mondo che ha già cambiato condizioni. Ogni decisione locale resta sensata. Ogni procedura è coerente. Ogni reparto ottimizza. Ma l’insieme perde equilibrio. L’ottimizzazione di una parte produce disordine nel tutto. È il tipo di cecità che nasce quando scambiamo la coerenza interna per stabilità.

Morin parla anche di ricorsività: nei sistemi complessi gli effetti possono tornare sulle cause, amplificarle o comprimerle. Per questo molte crisi non sono un “colpo solo”, ma una soglia che si supera dopo una lunga normalizzazione. Nel caso dell’Ili Pika, un lieve aumento di temperatura modifica il comportamento; il comportamento riduce il margine di sopravvivenza; e la riduzione del margine rende ogni variazione successiva più pericolosa. Non c’è un punto preciso in cui “tutto crolla”. C’è un passaggio che avviene quasi senza accorgersene.
Questo ci porta al secondo parallelismo: il tempo. Nel mondo dell’Ili Pika il problema non è solo il caldo, ma la compressione del tempo utile. Le stagioni cambiano ritmo, le finestre di raccolta si accorciano, il margine di errore si assottiglia. Quando il margine tende allo zero, anche una variazione minima diventa fatale.
Nei sistemi umani accade qualcosa di simile. L’accelerazione tecnologica, decisionale, organizzativa riduce progressivamente lo spazio per la correzione. L’errore non scompare. Diventa solo più rapido. E quando la velocità supera la capacità di riflessione, l’irreversibile arriva senza rumore.
Il terzo parallelismo riguarda la normalizzazione. L’Ili Pika non percepisce il cambiamento come crisi. Ogni anno è leggermente diverso dal precedente, ma mai abbastanza da imporre una rottura netta del comportamento. Il cambiamento progressivo non attiva l’allarme: attiva l’abitudine. Ed è una lezione durissima, perché è esattamente ciò che facciamo anche noi. Normalizziamo l’accelerazione. Normalizziamo la compressione del tempo. Normalizziamo l’assenza di alternative. Continuiamo a dire “è così”, “non si può rallentare”, “è il sistema”.
Morin ci metterebbe in guardia proprio da questo punto cieco: la complessità non punisce, ma non perdona quando i margini si assottigliano. Non per crudeltà, ma per interdipendenza. Quando tutto è connesso, perdere un margine significa esporre l’intero sistema al collasso.
E la lezione pratica, alla fine, è sempre la stessa: non basta chiedersi cosa non funziona. A volte bisogna accorgersi che ciò che funziona “bene” — in modo coerente, efficiente, persino virtuoso — può portarci, con passo regolare, oltre la soglia.
Le ricostruzioni paleontologiche indicano però un punto ricorrente: tra i sopravvissuti erano favoriti profili “di margine”. Animali spesso piccoli, con diete meno specializzate, capaci di vivere a terra, sfruttare rifugi, tane, microambienti più stabili, in un mondo dove le foreste collassavano e il cibo diventava intermittente. Non era questione di forza: era questione di elasticità e ridondanza. La capacità di reggere quando il contesto smette di garantire continuità.
È una metafora potente, perché ribalta un’idea ingenua di “selezione” intesa come superiorità. In certe crisi non sopravvive chi è ottimizzato per un ecosistema stabile, ma chi conserva spazio di manovra quando l’ecosistema si ribalta. È l’opposto dell’iper-efficienza: è la sopravvivenza come arte del margine.
E qui il parallelismo con l’Ili Pika diventa chiaro: quando i margini si assottigliano, non basta funzionare bene. Serve poter cambiare ritmo, cambiare risorsa, cambiare strategia. Perché le grandi soglie non avvisano: si attraversano. E solo dopo ci accorgiamo che il mondo, nel frattempo, è già diventato un altro.
E qui arriva la lezione più scomoda di questo episodio: non sempre sopravvive chi si adatta meglio. A volte sopravvive chi riconosce prima che l’adattamento non basta più. Chi capisce che serve cambiare scala, cambiare ritmo, o fermarsi prima che la soglia venga superata.
Per questo Lezioni dal passato non usa il passato per consolare, ma per segnalare. L’Ili Pika non è un simbolo tenero di fragilità. È un indicatore silenzioso. Come molti segnali reali, arriva quando è già tardi per lui, ma non necessariamente per noi.
La domanda finale, allora, non riguarda la zoologia.
Riguarda la nostra capacità di riconoscere le soglie prima che diventino invisibili.
Riguarda se sappiamo distinguere tra continuità e ostinazione.
Riguarda se, quando il mondo accelera, siamo ancora capaci di fermarci un secondo prima.
Perché i sistemi non crollano sempre con un boato. A volte scivolano. A volte scompaiono.
E mentre noi inseguivamo il Big Foot, la lezione era già lì, tra le rocce: un animale piccolo, concreto, senza leggenda addosso.
Non è il Big Foot. È l’Ili Pika.
E il punto non è “che fine farà lui”.
Il punto è se noi sapremo riconoscere il limite… prima che il limite riconosca noi.
Questa serie non nasce per offrire soluzioni né per distribuire colpe. Nasce per allenare uno sguardo: quello che prova a riconoscere i pattern prima che diventino destino. E nasce sotto lo sguardo del Decimo Uomo: la figura cognitiva che, quando il consenso sembra compatto e l’urgenza impone una sola direzione, si assume il compito ingrato di rallentare, dubitare, cercare l’ipotesi impopolare prima che l’inerzia diventi irreversibile.
Nei primi episodi questo sguardo si è esercitato soprattutto sul teatro più rumoroso e visibile: la geopolitica, il riarmo, le retoriche, le frizioni tra potenze, la psicologia collettiva che accompagna le scelte strategiche. Era necessario, perché è lì che il presente “fa notizia” e costruisce consenso. Ma il punto, fin dall’inizio, non era restare dentro la geopolitica come recinto: era usare quel campo come banco di prova per riconoscere fragilità più generali.
Da qui la svolta che inaugura l’episodio sull’Ili Pika: la serie allarga il respiro. Non cambia tema, cambia scala. Perché gli stessi meccanismi che rendono inevitabile una crisi internazionale, – accelerazione dell’urgenza, rimozione del limite, normalizzazione della soglia – agiscono anche altrove: nei sistemi naturali, nelle organizzazioni, nelle tecnologie, nella percezione del tempo, nei margini che si assottigliano senza fare rumore. La geopolitica resta una lente, ma non l’unica. Il filo conduttore è più profondo: capire come i sistemi collassano mentre “tutto sembra ancora funzionare”.
La storia, quando ritorna, raramente lo fa con le stesse forme; cambia linguaggio, strumenti, retoriche. Ma conserva le stesse fragilità cognitive: l’illusione della necessità, l’accelerazione dell’urgenza, la rimozione del limite. Lezioni dal passato è un invito a pensare quando sembra già “troppo tardi”, a ricordare che la responsabilità non coincide sempre con l’azione più visibile. A volte, il gesto più difficile e più umano è fermare il meccanismo mentre è ancora possibile.
Serie in corso (in ordine):
— Lezioni dal passato. Assonanze tra la fine del XIX Secolo e l’epoca contemporanea..?
— Lezioni dal passato. Episodio 2: la Pedagogia del riarmo
— Episodio 3 – Lezioni dal passato. Lo schiaffo americano, l’ombra di Dugin e l’occasione italiana
— Lezioni dal passato – Episodio 4. Dalla fine degli imperi alla psicopolitica della NATO
— Episodio 5 – Lezioni dal passato. Il limite rimosso
— Tredici giorni, un agosto evitato. Lezioni dal passato – Episodio VI
— Non è il Big Foot. È l’Ili Pika . Lezioni dal passato -Episodio VII
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